Ma cos'è l'Arte? Uno spunto di riflessione |
intervista a Gerhard Roth |
-La prima domanda che vorrei porle concerne il suo studio di neuroscienziato. Quanto contano oggi le conoscenze neuroscientifiche nello studio della mente?
Roth: ritengo che non si possa fare una teoria della mente senza tutti i dati della neurobiologia, in quanto le speculazioni possono andare in qualsiasi direzione, ma spesso le verità sono controintuitive.
Le caratteristiche dell'avere un'esperienza personale, del modo in cui pensiamo e di come percepiamo il mondo, non sono identiche a quelle dei processi cerebrali che hanno luogo nel cervello. Noi non percepiremo mai i meccanismi di sincronizzazione o l'attività diffusa, la topologia, della corteccia perché la nostra esperienza personale è illusoria in questo senso. È parte del senso comune pensare che ci sia un'istanza che pensa, che ragiona, che ha una certa percezione, ma poi studiando il cervello ci si rende conto che queste attività sono tutte in parallelo e distribuite. L'attività neuronale ha una forma molto diverso rispetto all'attività cosciente delle sensazione che noi sperimentiamo, tale esperienza è infatti un'illusione creata dal nostro cervello.
-L'esistenza della mente come la conosciamo attraverso l'introspezione è dunque fallace. Ma allora perché parliamo di mente e non solo di processi neuronali quando cerchiamo di spiegare l'attività cosciente umana?
Roth: da una parte si può dimostrare che quando abbiamo certi pensieri, certi sentimenti, c'è sempre un relativo substrato neuronale nel cervello. È possibile che un certo pensiero sia rappresentato da diversi processi neurobiologici, ma c'è necessariamente un rapporto tra stato mentale e stato cerebrale. Se si studiasse per lungo tempo un cervello di un individuo, alla fine, si potrebbe indovinare quello che pensa e quello che vede. Se lo si facesse bene si noterebbe che per ogni sensazione, ogni pensiero, ogni percezione e ogni emozione esiste un determinato substrato neurobiologico definito. Quindi si potrebbe identificare l'attività neurobiologica con l'attività mentale. Dall'altra parte però dal solo studio del cervello e della sua attività non si può capire, dall'aspetto neurobiologico e dal comportamento delle cellule, il significato, il “ meaning” di tale attività, che può essere determinato solamente dopo esperimenti psicologici, per esempio chiedendo ad una persona cosa pensava o cosa provava durante gli esami neurobiologici.
Dalla sola attività della corteccia, non si può determinare ciò che quella attività significa, tale significato non è per niente evidente. Se invece si domanda al paziente: hai visto qualcosa? Ed egli risponde per esempio: “sì, una freccia rossa”, a quel punto registrando l'attività della corteccia si può affermare che quei determinati processi sono l'equivalente di “vedere una freccia rossa”, ma dall'attività neurobiologica soltanto non si può dedurre niente. Soprattutto si deve considerare che quello che è il substrato della coscienza e della percezione, nella mente, non è determinato soltanto dall'attività che si può misurare, è molto di più. Si possono misurare poche cose dell'attività delle sinapsi.
In realtà c'è molto di più. Quindi non si può sostenere che un pensiero non sia nient'altro
che il “firing” di una certa popolazione neuronale, perché ciò non è vero; è molto più complicato e
dobbiamo ammettere solamente che quando i neuroni interagiscono in un certo modo emerge la
coscienza o un pensiero ed il rapporto è sempre di uno ad uno: uno stato mentale implica uno stato
neuronale, ma non si può ridurre l'esperienza all'attività neurobiologica.
-Per quanto riguarda la coscienza lei dice che il cervello produce la coscienza e fornisce le prove
delle basi neurofisiologiche di questa produzione. Si può dire che questo spieghi la coscienza?
Roth: In un certo senso sì. Nei miei ultimi libri ho riformulato il concetto di coscienza fino ad arrivare a considerare almeno dieci tipi diversi di coscienza e si può mostrare come tutte queste coscienze abbiano un sostrato definibile nel cervello. D'altra parte però si può anche spiegare perché abbiamo bisogno della coscienza. Per esempio senza la coscienza non sarebbe possibile rendersi conto di ciò che si vede e si legge. In oltre anche la verbalizzazione è basata sulla coscienza. Possiamo avere percezioni non coscienti ma non possiamo darne conto in un atto verbale. Non possiamo effettuare alcun “report”. Ogni atto verbale prevede coscienza. Essa è dunque una forma di “information porcessinig”. Si può perciò spiegare la funzione della coscienza nell'ambito delle leggi naturali e dell'information processing. Non c'è un aspetto mistico in essa, anche se nessuno può esattamente spiegare come funziona. Forse in futuro ciò potrà avvenire...
-Che rapporto esiste invece tra processi consci ed inconsci? Cosa possiamo conoscere della nostra
mente e cosa ci rimane inaccessibile?
Roth: questo è un problema di sviluppo individuale. I centri che producono l'Es (i processi inconsci)
si sviluppano molto prima dei centri che producono la coscienza, i quali si basano sull'attività della corteccia. Tutto quello che un neonato percepisce è o inconscio o comunque non può essere ricordato, non può essere memorizzato a livello cosciente. Forse il neonato può sviluppare prima dei tre anni processi consci, ma non può ricordare tali processi, perché la memoria non è ancora completamente sviluppata.
In oltre l'attività dell'amigdala e del sistema limbico è inconscia. Questi sistemi, del resto, si sviluppano molto prima e poi dominano il nostro comportamento decisamente più che i processi consci, che si sviluppano più tardi e non hanno poi grande influsso sul nostro comportamento rispetto a quegli inconsci; infatti il 90 per cento di ciò che facciamo è basato su processi inconsci.
C'è anche un altro punto importante: molte cose che un tempo erano coscienti (erano state apprese attraverso processi consci) ora non lo sono più sono pre-coscienti, intuitive.
Il 70 percento dei processi mentali sono “fuori dalla corteccia”, inconsci, prodotti dal sistema limbico. In oltre nella memoria a lungo termine si trovano tracce delle cose che una volta abbiamo imparato coscientemente ma che ora sono “sommerse”, sono diventate intuitive, automatizzate.
Tutto ciò è importante poiché questi processi guidano il nostro comportamento senza che ce ne
rendiamo conto. Pochissima parte del nostro comportamento viene regolato dalla ragione cosciente, poco, pochissimo, l'un per cento.
Questa è perciò la relazione che esiste tra pre-cosciente, incosciente, intuitivo e la coscienza acuta: tre anni fa ero a Siena e ho fatto tante cose, ho parlato con alcune persone e ho visto determinate cose, queste esperienze però non sono più presenti in dettaglio. Solamente quando sono di nuovo a
Siena questa memoria inconscia(delle esperienze già vissute) si riattiva, mi guida, anche se non mi posso rendere conto (non posso accedere in prima persona) che cosa sia che mi guida. Ero con il professor Nannini in un ristorante e ho mangiato qualcosa che mi ha fatto stare male, sono quasi morto. Adesso solo questo ricordo è presente coscientemente, tutto il resto (delle esperienze) mi guida ma non è presente coscientemente, almeno non in modalità attenzionale (non posso rendermi conto che tali esperienze mi guidano).
-Ultimamente stanno emergendo sempre più conoscenze sui processi del cervello. Molte scoperte
portano ad ammettere che l'io non esista e che sia un'illusione, lei cosa ne pensa?
Roth: Sì, io ho molto lavorato, negli ultimi tempi, con psicologi dello sviluppo dell'infanzia e insieme abbiamo verificato come si possa dimostrare l'esistenza di diverse fasi dello sviluppo dell'io del bambino. Ad esempio una forma di io estremamente primitiva è quella che permette al bambino di riconoscere i propri bisogni. Sviluppatasi questa capacità si evolve l'io dell'identificazione di sérispetto alla madre, poi l'io come agente, cioè la padronanza dei propri movimenti; l'io sociale e l'io linguistico si sviluppano più lentamente. Si può dimostrare che l'evoluzione di queste forme di io parallela a quella del cervello.
L'io però è sempre un “label”, un attributo, non un meccanismo. Per esempio quando un bambino fa
qualcosa e sente la madre dire frasi del tipo: “Tu sei stato bravo”. Prima deve imparare che quando la madre afferma: “io ti dico che tu...” si riferisce a se stessa, poi deve capire che il “tu” è lui stesso.
Questo avviene in un certo periodo dopo il quale il bambino capisce che il “tu” è lui e allora capisce
(apprende il concetto) anche che tutto quello che è controllato dal suo corpo e dalla sua mente è il
suo “io”. In realtà però l'io non è una sostanza che controlla tutto, è un “label” un'istanza unificatrice.
Allora si può dire che da una parte l'io è un'illusione: l'illusione che l'io stia al di sopra di tutti gli
altri processi mentali e li controlli. Dall'altra parte però senza la costruzione dell'io gli uomini non
potrebbero agire. Per esempio pazienti che hanno perso l'istanza unificatrice dell'io non sono in
grado di agire nel mondo.
La mia posizione è che da una parte l'io è una costruzione del cervello che non esiste di per sé,
come sostanza, ma allo stesso tempo senza questo principio compositivo l'uomo non potrebbe agire.
Allo stesso modo nella società umana esistono delle costruzioni, come la dignità dell'uomo, che non
hanno una realtà fisica, ma sono concetti molto importanti. Concetti illusori possono essere molto importanti, democrazia per esempio!
-Nel cervello si può riscontrare una regione che può essere considerata la sede dell'io?
Roth: di io differenti! Esiste, per esempio, una regione della corteccia prefrontale chiamata pre- SMA (Supplementary Motor Area) che si attiva solamente quanto agiamo in conformità con la nostre motivazioni interne. Tale area si attiva solamente nel caso in cui sentiamo che la nostra azione è guidata da un bisogno spontaneo ed interno al corpo e non ci sono motivazioni imposte dall'ambiente esterno. Si deve notare che se in un paziente si stimola elettricamente questa regione
egli inizia un'azione e afferma di averlo fatto per sua volontà. È evidente invece che è stata la stimolazione elettrica a determinare tale azione.
È molto complicato capire il circuito neuronale che determina i motivi che ci spingono, per esempio, ad alzare un braccio. O tali motivazioni vengono da fuori, come nel caso del comando: “alza il braccio”, o vengono da dall'interno del corpo. Solo quando mi rendo conto che tali motivazioni provengono dal mio corpo, da me stesso quindi, posso sviluppare il concetto di “io agente”. Mi rendo conto cioè che sono il fautore dei miei atti.
Questo è solo un esempio di come l'io emerga dal cervello, ma ci sono molti altri tipi di io: della percezione, del linguaggio e della memoria, per citarne alcuni, e tutti questi tipi di io, quando ne diventiamo coscienti, posseggono diverse localizzazioni nella corteccia. Si può dimostrare subito, ad esempio, come a causa di una lesione del cervello il senso dell'io come agentività possa scomparire mentre senza che ciò disturbi la percezione e la capacità intellettiva; pazienti con tale lesione hanno l'illusione che qualche forza esterna li guidi.
Un altro esempio può essere fornito studiando la capacità di riconoscersi allo specchio. Può succedere che alcuni pazienti si alzino la mattina e vedano nello specchio, al posto di loro stessi, una persona che non conoscono. Questo accade perché i centri parietali che sono addetti al riconoscimento del viso solo lesionati o distrutti e non si può riconoscere nessuno, nemmeno se stessi. Dall'altra parte, pur non riconoscendosi nello specchio, il resto del loro io è sano e quando fanno qualcosa affermano tranquillamente“sono io che lo faccio”, ma non riescono a riconoscersi nello specchio. Allora si può intuire come i diversi io siano distribuiti nella corteccia quando sono coscienti, altrimenti se ci fosse un solo centro dell'io ci sarebbe un tutto o nulla; o l'io c'è o l'io non c'è. Invece come ho mostrato può darsi che alcune forme di io sussistano anche se altre sono sparite, questo perché la loro distribuzione nella corteccia è altamente differenziata.
-Un altro annoso problema con il quale oggi le neuroscienze si confrontano è quello del libero
arbitrio. È un problema ancora più grande di quello dell'io perché tutte le persone si sentono libere...
Roth: Non tutte! Ci sono pazienti che affermano: “io non sono libero, una forza dentro di me mi
dice quello che devo fare, io non sono libero”. Si potrebbe anche citare chi soffre di impulsi
ossessivi: egli è costretto a fare qualcosa, come lavarsi le mani ogni cinque minuti, lo deve fare!
Ne è obbligato a causa di una malattia che attacca i gangli basali. Il suo cervello lo obbliga ad agire
senza che egli possa compiere una scelta libera.
Quando abbiamo molta sete, in ogni caso, dobbiamo bere, non siamo liberi, può succedere che si
beva anche se l'acqua è sporca e non ci sentiamo liberi, siamo spinti da un bisogno molto forte.
Perciò possiamo dire che sentirsi liberi significa: non c'è una forza esterna o interna che ci comanda,
che ci domina e l'assenza di queste due forze significa “essere liberi”. Queste sono le precondizioni,
questo basta. Gli psicologi che studiano le condizioni nelle quali le persone dicono “io mi sento
libero...a partecipare a questo convegno o a bere o a non bere un caffè, ecc.” assumono
semplicemente che essi siano liberi se nessuno li costringe e potrebbero agire altrimenti. Se ad
esempio ho davanti del tè e del caffè, la libera scelta, io scelgo il tè invece del caffè e mi sento
libero. Se tu mi domandi chi ha deciso per il tè invece che per il caffè, io affermo:io! Sentirsi liberi
basta per la gente. In realtà studiando il cervello umano si potrebbe determinare esattamente quali
siamo i processi cerebrali che hanno spinto a prendere il tè invece del caffè. Si possono spiegare i
motivi totalmente. Allora io mi sento libero quando ho una scelta, ma questa scelta è determinata
dai miei geni, dall'esperienza infantile, dalle esperienze fino ad oggi e tutti questi motivi mi
determinano in continuazione.
Se si studiano a livello neurologico e psicologico le persone che bevono indifferentemente caffè o
tè, non si potrà dire preventivamente se prenderanno uno o l'altro. Infatti quando i motivi per
effettuare una scelta si equivalgono, non ne esistono di prevalenti, può darsi che per scegliere si sia
costretti addirittura a ricorrere al dado, al caso. Questo significa che a volte i meccanismi del
cervello non trovano una motivazione forte per una soluzione o per l'altra. Non sempre quindi il
nostro cervello determina esattamente le nostre scelte.
Hume affermava: “siamo liberi, ci sentiamo liberi, quando abbiamo una scelta”.
Quando decidiamo qualcosa, questo evento è sempre determinato dalla nostra personalità. Bisogna
rendersi conto che la possibilità di decidere, la possibilità kantiana di decidere senza pulsioni, è
assurda, non esiste. Quando Kant scriveva parlava principalmente della moralità. La moralità è
agire contro i propri interessi, contro le proprie motivazioni interne. Per esempio se vedo qualcosa
di molto attraente e nessuno mi guarda potrei volerlo rubare, ma non lo faccio per senso morale.
Anche aiutare un amico, o la propria moglie non è morale, perché dettato dal sentimento. La
moralità è la coscienza della moralità. La moralità ha ragione in se stessa diceva Kant, ma questo è
assurdo!
La gente ruba quando le probabilità di non essere presa sono minime; poche persone lo fanno anche rischiando. La ragione, quindi, entra in gioco solamente per calcolare le probabilità di successo, l'essere morale invece deriva dall'educazione ricevuta. La moralità è basata sull'esperienza individuale e sociale. Io, per esempio, sono stato educato da mio padre e dalla mia famiglia a non rubare anche se nessuno se ne accorge. Perché diventi un sentimento morale, però, un precetto deve essere ripetuto molte volte. È educazione. La libertà morale di Kant non esiste: la moralità è educazione.
Per esempio, se accade che ti facciano molto arrabbiare e tu non uccida chi ti ha offeso significa che
hai imparato a controllare i tuoi impulsi, che quella è diventata la tua natura, oppure che il tuo
cervello ti ha allertato che ti possano prendere e mettere in prigione. Se però perdi veramente il
controllo e uccidi, in tribunale il giudice ti condanna: “tu avevi la possibilità di resistere alla
tentazione, e non l'hai fatto, sei responsabile delle tue azioni” dirà. In realtà tu potresti sostenere che
ciò non era sotto il tuo controllo. Non sei responsabile dei tuoi geni e della personalità che ti hanno
portato a fare quel gesto. Questo è un grosso problema etico che non si può risolvere in quanto il
nostro diritto penale è basato sull'idea della libera volontà, che non esiste. O tu resisti perché hai una
certa educazione e certi geni o non resisti perché hai un'altra educazione.
Noi studiamo i giovani criminale e investighiamo i motivi per cui commettono dei reati e possiamo
sostenere che il 20, 30 per cento del loro comportamento è influenzato dai geni e il resto
dall'educazione, della famiglia in primis. Essi non sono mai liberi in quanto questo tipo di
determinazione avviene nei primi anni di vita, quando non siamo ancora coscienti a pieno. Poi ci
condiziona per tutta la vita.
Il settanta-ottanta per cento della nostra personalità si forma durante l'infanzia. Molti studi
dimostrano che nello sviluppo della personalità e del comportamento i geni hanno un'incidenza del
20/30 per cento; almeno 50 per cento viene dall'esperienza primaria, da neonato fino a tre anni, poi il restante 20 per cento è determinato dall'esperienza da adolescente e da adulto. Questo vale per tutti, per persone normali, ma anche per criminali e pazienti. Noi cresciamo con una personalità che si forma molto presto, di cui non abbiamo nessuna coscienza. Dobbiamo ammettere l'idea di essere controllati da forze che non riconosciamo. Ognuno ha la sua personalità, ma non abbiamo nessun idea da dove venga tale forma. Solo dopo uno studia approfondito di molti anni si può determinare se un tratto della personalità venga dai geni o dalla prima infanzia e così si può ricostruire l'intera personalità. Ed è quello che facciamo con i giovani criminali. Sono soprattutto tecniche psicologiche quelle che usiamo, anche studi del cervello, ma soprattutto tecniche psicologiche.
Facciamo interviste, facciamo indagini sulla famiglia. Assenza di padre, madre drogata, mancanza
di soldi, niente educazione, miseria. Da ciò si può capire come evolve la personalità di questi
ragazzi, in modo quasi standard. Dire che avevano la libertà di non rubare non esiste.
- Concluso il tema del libero arbitrio, lasciandoci dietro molte domande aperte, come ogni dialogo
deve fare, la vorrei interrogare su di un tema più metafisico, nel senso di riflessione sulla fisica, in
questo caso sulla neurobiologia. Lei ci dice che il cervello “crea” la realtà, che ciò che percepiamo
non è una semplice rappresentazione della realtà, ma una vera e propria costruzione “Bildung”. La
realtà che il cervello crea è piena dei nostri ricordi, delle nostre emozioni; è un mondo fenomenico.
Lei la chiama Wirklichkeit. Ce la può descrivere?
Roth: Questa è un'idea che è diventata molto comune nella neurobiologia di oggi, nessuno avrebbe
qualche dubbio che è così.
Quando tu visiti un certo luogo per la prima volta tutto è nuovo, interessante. Quando ritorni nello
stesso luogo una seconda o una terza volta tutto è interessante, ma non come la prima volta. Se vivi
in un posto per dieci anni, poi, lo vedi completamente diverso dalla prima volta. Anche in amore è
così. Tu ti innamori di una bellissima ragazza, poi se vivi con lei per dieci anni ti scordi di perché ti
appariva così bella!
Quella dei sensi è sempre un'attività selettiva, ma noi vediamo il mondo sempre attraverso la nostra
memoria. La memoria non riflette il mondo esterno. La stessa memoria a lungo termine riscrive
sempre la nostra esperienza, ogni giorno. Essa non è una conoscenza statica, è un processo: se torni
in un luogo dove sei già stato, questa percezione ti viene riformata in modo sempre diverso. Allora
dobbiamo riconoscere che l'uomo vede il mondo più o meno identico, ma sempre in relazione ai
dati forniti dalla memoria.
Il cervello vede quello che aspetta. All'inizio, appena nati, prima di nascere, in realtà, siamo come
ciechi. Il cervello deve fare un'interpretazione di quello che vediamo una prima volta. Questo
meccanismo di interpretazione che inizia con la nascita, prima della nascita e non termina che con
la morte implica come suo costituente che ogni volta che si ha una nuova esperienza
l'interpretazione viene attualizzata modificandone o rinforzandone certi aspetti. Ogni volta il
cervello crea un nuovo mondo basato sulla nuova esperienza. È un processo totalmente interno. Se
conosci una persona da dieci anni sai che non è identica a come l'hai conosciuta dieci anni prima
perché nel frattempo hai vissuto un lungo periodo di tempo che ti ha riscritto tutte le esperienze che avevi memorizzato.
Il nostro grande cervello percepisce ciò che si aspetta. Noi vediamo ciò che aspettiamo basandoci
sulla memoria. Spesso siamo consapevoli solo delle variazioni che un esperienza ci presenta rispetto alle caratteristiche registrate attraverso la memoria. Se questa differenza appare molto profonda il cervello riscrive e modifica il contenuto dell'esperienza, se altrimenti la differenza è minima il cervello vede ciò che si aspetta di vedere in base alle sue precedenti percezioni, e questo, a volte, è anche estremamente pericoloso. Una cosa molto comune deriva, ad esempio, dall'incontro con un amico che ha portato la barba per 10 anni e se la taglia. Quando lo vedi dopo il cambiamento o non percepisci alcuna modificazione o vedi qualcosa di vago che ti disturba, ma non riesci a capire cosa.
Non percepisci immediatamente che non ha più al barba perché il cervello ti fa percepire il mondo
su per giù come se lo aspetta e ci vuole del tempo perché riscriva le nuove informazioni dando vita
ad una nuova esperienza percettiva. Questo è molto pericoloso, come dicevo in precedenza, se
stiamo guidando nel traffico su una strada che percorriamo costantemente da 10 anni. Può
succedere di non accorgersi di eventuali nuovi cartelli che segnalano che quella strada è ora senso
unico perché la nostra percezione è oscurata dall'abitudine, dalle nostre esperienze passate; è come
essere ciechi!
Tutto questo avviene perché per il nostro cervello è molto pratico basare la percezione sulla
memoria e riscrivere i dati in suo possesso solo in presenza di grandi differenze è un risparmio di
energia!
- A questo punto devo chiederle quale sia l'illusione per cui si crede di essere in prima persona gli
autore delle proprie scelte quando invece è un sistema complesso mente-cervello che ci rende ciò
che siamo.
Roth: L'illusione è che ci sia un io che è padrone. Se uno accetta la propria personalità, il fatto che
si è sviluppata dai geni e dall'esperienza passata, allora si accetta il proprio essere. Allora può dire:
“questo sono io”.
Io sono composto da un mosaico di tante cose. La possibilità di cambiare la propria personalità è
limitata in età adulta. Bisogna accettarsi. Siamo come siamo. Così sparisce anche l'ansia. Si deve
semplicemente accettare quello che siamo. La personalità è controllata dall'inconscio, non solo
freudiano. È controllata da tutto ciò di cui non ci rendiamo conto, come ad esempio le intuizioni, e
dalle esperienze passate che non si ricordano coscientemente, ma alle quali si può accedere con la
coscienza attraverso la memoria. Anche i pensieri sono guidati da componenti inconsci di cui non ci
rendiamo conto. Ciò va accettato. Nonostante tutto esiste comunque la scelta! Solo che ogni scelta
sta entro l'ambito della personalità. Per esempio, un amico ti propone di andare al cinema e tu
accetti, poi ci pensi meglio e dici di no, ma non sai perché. Se finalmente viene fuori che non vuoi
andare al cinema per la paura di essere circondato dalla gente, ad esempio, ne diventi consapevole,
ma non sai comunque perché hai questa fobia. Nonostante la consapevolezza, rimangono celati i
motivi profondi del perché le cose stanno in un certo modo e non in un altro. E questo accade
spesso. Noi facciamo e diciamo delle cose di cui non sappiamo spiegare il perché. Se tu mi domandi
perché vuoi restare a casa nonostante sia un film molto bello io invento qualcosa, ad esempio, che
devo finire un compito, ma non è vero, in realtà, ho paura.
Spesso la gente dà spiegazioni molto complicate dei propri comportamenti perché nel profondo non sa perché agisce in quella determinata maniera e inventa, dando motivazioni superficiali. Mi accade spesso di verificare questo fatto quando parlo della mia professione con dirigenti dell'economia tedesca. Sovente tendono ad aver bisogno di esplicitare di essere in un determinato modo; hanno bisogno di riconoscersi ed affermarsi come ambiziosi e lavoratori. Potrebbe essere tutto falso, ma loro hanno bisogno di auto-rappresentarsi un quadro unitario della propria personalità. Solo se si accettano invece i fatti suddetti l'ansia di vivere sparisce; tu sei come sei.
- Il problema della personalità desta in me grande stupore. Ancora di più però c'è un punto della sua
teoria che mi affascina e mi sconvolge. Esattamente quando lei dice che la differenza tra mente e
cervello è una differenza all'interno del mondo fenomenico. (quindi una differenza apparente, non
reale). Ci può spiegare meglio?
Roth: io da neurobiologo mi metto a spiegare come il cervello produce la mente: faccio esperimenti
sul cervello. Quello che vedo dall'esperimento però è un cervello che il mio cervello ha creato. Lo
vedo davanti a me, ma tu invece puoi mostrare, attraverso un altro esperimento che è la mia corteccia visiva che ha creato il cervello che sto osservando. Quello che faccio, la mia mano quando
la vedo, è una costruzione del mio cervello. Tutto quello che vedo è una costruzione del mio cervello. Attraverso la fMRI posso vedere il mio cervello, ma in realtà non è il mio cervello, ma un cervello costruito dal mio cervello. Anche io sono un costrutto del mio cervello! Ogni mia esperienza è una costruzione del mio cervello. Il cervello che mi crea non esiste nella mia esperienza.
- Io: è incredibile!
Roth: Nessun neurologo avrebbe dubbio che è così. Io vedo la mia mano e domando al neurologo
dove si forma l'immagine che vedo ed egli mi risponde: nel cervello. Io sento qualcosa e mi
domando dove sta accadendo? Nel cervello, ovviamente! Allora la conclusione logica è che esiste
un mondo esterno reale dove esistono uomini, dove esisto anche io, (un uomo chiamato con il mio
nome ed un cervello): questa è la realtà (speriamo)!
Il mondo dove esisto io (come percezione di sé) è stato invece costruito da quell'uomo con quel
cervello ed il mio nome, ma io non lo potrò mai vedere! Tutto quello che vedo e sento è una
costruzione del cervello. Dobbiamo ammettere che c'è un mondo reale dove esistono gli uomini e
gli animali con dei cervelli che costruiscono mondi attuali (fenomenici), ma per noi questo mondo
attuale è il solo mondo che esiste, l'unico che possiamo conoscere e non possiamo vedere oltre.
Anche se studio il mio cervello non posso trascendere la realtà fenomenica perché ciò che vedo è
costruito dal mio cervello. Io non posso oltrepassare questo mondo. Anche logicamente non è
possibile. In questo momento, mentre parliamo, due costruzioni parlano in una mente che porta il
mio nome e quando tu ti percepisci discutere c'è una creatura con il tuo nome nella cui mente
avviene la conversazione ed abbina ai nostri costrutti la parola Io e la parola Tu.
- Come è possibile che due costruzioni che stanno in due menti (la nostre) che sono individuali,
separate, entrino in contatto. Come è possibile che si svolga una discussione tra noi se siamo
ognuno nella mente dell'altro?
Roth: Nel mio libro "Bildung braucht Persönlichkeit" ho trattato questo problema di nuovo. Ancora
una volta mi sono chiesto come, se ognuno è imprigionato dentro se stesso, sia possibile capirsi.
Capire l'altro è un risultato di un lungo processo. Noi ci capiamo perché siamo esseri umani. Questo
significa che possiamo capire l'espressione del viso, i gesti, gli aspetti emozionali degli altri, ci sono
cose che capiamo spontaneamente. C'è comprensione anche senza parole. Inoltre possiamo parlare
la stessa lingua, ad esempio l'italiano. Vale la pena sottolineare che ci saranno sempre delle
differenze nell'uso della lingua, ad esempio tra me e te, perché io sono stato educato in Germania e
tu in Italia. Anche dopo quarant'anni di confronto con gli italiani ci sono sempre cose che non
capisco. Tra gli italiani stessi ci sono delle differenze: due italiani nati entrambi a Milano si
capiscono meglio di uno nato a Milano e uno a Roma perché hanno ricevuto lo stesso tipo di
educazione. È difficile capirsi anche se si proviene da classi sociali diverse. Più l'educazione è
simile e più è facile capirsi. Questo serve a spiegare come la comprensione non sia un meccanismo
diretto, dagli stimoli di un cervello ad un altro. È il tuo cervello che ricostruisce gli stimoli percepiti
e, parallelamente, ogni cervello ricostruisce più o meno allo stesso modo gli stimoli in quanto i
meccanismi che compiono tale processo sono gli stessi.
Anche se si vive in stretto contatto per anni non si può mai essere certi di capire quello che succede
nella mente altrui. Ad esempio mia zia diceva di mio zio, dopo che era morto, che era un uomo
buono, ma in realtà era una sua costruzione, perché quello che succedeva nella sua mente non lo ha mai capito. Quindi si potrebbe sostenere che capirsi è una costruzione che due cervelli fanno in
parallelo l'uno dell'altro senza però potersi concludere con una reale comprensione e
compenetrazione reciproca. Ognuno vede il mondo secondo la sua esperienza e se le esperienze
sono molto simili, allora due persone vedono il mondo in maniera quasi uguale, mentre, se le
esperienze sono diverse il mondo è visto in maniera molto diversa. Uno che viene dalla classe
operaia è difficile si capisca con uno che viene dalla classe capitalista e se lo fa è perché hanno un
background di conoscenze/esperienze comuni.
- In questo mondo contemporaneo si parla molto di oggettività, ma alla luce di quello detto fin qui,
come si risponde alla domanda: che cos'è la verità?
Roth: Questa è una domanda che mi faccio sempre mentre compio le mie ricerche. Quando la
concezione del mondo è abbastanza stabile, si crede, ad esempio, nelle verità della chiesa, nella
parola del Papa, nelle affermazioni del governo, allora si può sviluppare un concetto di verità.
Credere in Dio, nel paradiso, nelle istituzioni in generale, permettere di credere in certe verità.
Il mondo però è in continuo cambiamento e non esiste verità. Ogni giorno ognuno di noi fa
esperienze sempre nuove e diverse che rendono continuamente rinnovabili le nostre conoscenze.
Anche nella mia scienza (la neurobiologia) è così. Dieci anni fa, ad esempio, alcuni esperimenti
portavano a credere ad una certa verità, che poi in base a nuovi esperimenti si è dimostrato essere
falsa; in realtà tempo dopo ancora, si è tornati sostenere la prima interpretazione e a ritenere che
quella fosse la verità e non l'altra. Ad esempio, per quanto riguarda l'intelligenza, in Inghilterra
Cyril Burt aveva fatto esperimenti sui gemelli monozigoti scoprendo che il 50% dell'intelligenza
deriva da caratteri ereditari. Questo non piaceva alla comunità degli psicologi del tempo, i quali
erano felici della mancanza di dati a sostegno di questa tesi, tanto che anche il suo discepolo Hans
Eysenck dovette negare la verità proposta del suo maestro. Sorprendentemente anni dopo si scoprì
che aveva ragione proprio Burt! Niente vieta comunque che in futuro si possa scoprire che in realtà
si sbagliava veramente.
Ogni volta che apro una rivista scientifica, soprattutto, leggo che molte delle verità che possediamo
e delle cose che pensiamo non sono più giustificate. Questa è un'esperienza molto comune tra gli
scienziati nel mio campo; allora cosa sarebbe la verità? Attraverso quale processo potremmo trovare la verità? La stampa dice la “verità”, il papa dice la “verità”, ma se io pubblico un articolo
scientifico non posso dire: questa è la verità. Posso solo portare degli esperimenti che non risultino
stupidi e, se confrontati con gli studi sul cervello dell'esperienza neuroscientifica degli ultimi cento
anni, risultino coerenti ed con risultati plausibili. La verità non esiste perché non c'è alcun modo per
trovarla. Articoli possono smentire altri articoli; si può dimostrare che alcuni esperimenti sono stati
eseguiti male e che quindi i risultati non sono attendibili, ma mai affermare che quella sia la verità.
Ci sono delle verità logiche, ma quello che ci interessa sono le verità empiriche e queste possono
essere ricercate solo attraverso la plausibilità, la coerenza e la consistenza di dati.
- La verità è allora un processo in divenire che sempre si rinnova in base a nuovi dati?
Roth: no, non si può proprio parlare di verità. Un filosofo potrebbe, per assurdo, affermare di
credere in Tommaso D'aquino e rifiutare le affermazioni della scienza dicendo che sono tutte
sbagliate. Noi crediamo che la scienza incrementi incessantemente le nostre conoscenze ma non lo
sappiamo con certezza. (Con tono ironico,ndr): Potrebbe essere un errore totale e potrebbe aver
avuto ragione Tommaso o Aristotele o Gesù.
Spesso i miei studenti mi chiedono: professor Roth, esiste una vita dopo la vita? Io rispondo: non lo
so. Quello che posso dire è che non esiste nessuna evidenza dell'esistenza di una vita simile a quella
di adesso dopo la morte. Se c'è una vita può essere solo totalmente diversa dall'esperienza che
viviamo in questa terra. Non possiamo saperlo. Ad esempio il dogma della verginità di Maria è
un'affermazione empiricamente indimostrata; non si è mai verificato nessun caso di concepimento
senza inseminazione. La chiesa nonostante questo continua a sostenere il dogma della verginità che si regge, comunque, su un errore di traduzione. Infatti nel testo originale si parla di “donna giovane” non di donna vergine. Nelle successive traduzione, dopo l'errore, è stata mantenuta questa
traduzione. Ogni teologo sa di questo errore, anche il Papa, ma nonostante questo continuano a
sostenere il dogma illogico della verginità. In ogni caso è una “verità”che non fa parte del mondo
indagato dalle scienze naturali, cioè di questo mondo. Si potrebbe anche sviluppare un concetto di
anima all'interno delle scienze naturali identificandola con la psiche, ma se si parla di anima
immortale allora io mi domando quale sia l'evidenza empirica che permette di affermare tale
“verità”.
- Dopo la morte io so che fine fa il mio corpo, so come si evolvono i processi di decomposizione del
corpo, ma non ho idea di cosa succeda alla mia psiche, ai miei pensieri ai miei ricordi, anzi questi,
come entità fisiche non sono nemmeno mai esistite.
Roth: perché no? Certo che sono esistiti, sono stati prodotti dal cervello. Il pensiero è uno stato
fisico. É un po' strano, ma le emozioni esistono fisicamente. Se tu studi sotto quali condizioni il
cervello produce i pensieri puoi descrivere tali processi. Il pensiero, la mente sono entità fisiche.
Sembra strano ma non c'è dubbio di ciò. Lo testimonia il fatto che quando si pensa intensamente il
nostro cervello consuma più energia, ossigeno e zucchero. I pensieri, la mente sono entità fisiche
perché seguono le leggi della fisica e dell'evoluzione e se questa macchina, il cervello, sparisce
allora anche la mente sparisce, nel senso di come noi la sentiamo. Da teologo si può credere che la
mente sia qualcosa di diverso, ma da scienziato io posso domandare solamente quali sono le
evidenze per sostenere tali affermazioni. Tutte le evidenze sono che quando muore il cervello muore anche la mente. Ciò si vede anche con il deperimento dell'organo cervello nella vecchiaia che
corrisponde con un deperimento della mente, come nei casi di alzheimer e di demenza senile ad
esempio.
Se esistesse un'anima che sopravvive alla morte dovrebbe essere un'anima che nel nostro mondo
empirico non esiste. Io da agnostico posso dire: non lo so. Come filosofo del costruttivismo io non
posso dire: Dio non esiste. È vietato. Se si volesse dare di Dio una concezione empirica allora potrei
dire che Dio non esiste in quanto non ci sono prove di tale entità, ma se tu mi dessi una concezione
non empirica di Dio io potrei dire semplicemente: non lo so. Parlare di Dio equivale a dire che
esiste un pianeta che ha tanti aspetti interessanti ma che non è percepibile. Dipende quindi dal
concetto che si ha di Dio, se si vuole abbracciare un punto di vista costruttivo.
Per concludere vorrei ritornare sul concetto del “parlare” come elaborazione interna al cervello,
qual'è il sostrato che ci permette di elaborare un'interpretazione delle intenzioni del parlante?
Roth: Noi abbiamo una base genetica per capire la lingua umana. Questa capacità si sviluppa
nell'emisfero sinistro del cervello. Se io incontro un uomo che parla una lingua straniera, anche se
non capisco ciò che dice, capisco che è un uomo e che sta parlando una lingua umana perché questa possibilità di comprensione è geneticamente determinata. Se passo del tempo con lui, piano piano, capirò alcuni significati che attribuisce a determinati vocaboli fino ad arrivare alla comprensione del suo circolo linguistico, in un movimento quasi a spirale.
- La Realitaet invece è la realtà fisica?
Roth: no, questo non si può dire perché se diciamo che la realtà fisica è la vera realtà non ci
rendiamo conto che anche la fisica sia una costruzione del nostro cervello. La vera realtà possiamo
solo sperare che esista, perché altrimenti diventa difficile spiegare molte cose, ma è sicuramente
inconoscibile. Noi non possiamo descrivere la realtà perché dobbiamo usare il nostro linguaggio che
deriva dalla nostra mente e quindi dalla nostra Wirklichkeit (realtà fenomenica).
Ad esempio se diciamo che i colori non esistono realmente, dobbiamo chiederci cosa esista allora?
Le frequenze della luce, potremmo rispondere, ma luce e frequenze che cosa sono? Sono concetti
fisici. Sono costruzioni. Possiamo scrivere una formula per descrivere l'andamento delle frequenze
della luce, ma una formula è una costruzione esclusiva della mente. Non c'è nessun modo per
descrivere la realtà indipendentemente dalla nostra esperienza. Anche se riduco la fisica alle
formule matematiche queste formule devono essere apprese da una mente, richiede uno studio di
molti anni. È una costruzione che io mi faccio, anche se credo che il mondo segua queste leggi
naturali. Bisogna rendersi conto che anche il concetto di legge naturale è un concetto costruito.
Questa costruzione però, stiamo attenti, non è “invenzione”, perché nelle scienze naturali abbiamo
sviluppato un metodo che massimizza la plausibilità delle affermazioni. Se uno dicesse di aver visto
Gesù io gli chiederei come ha fatto a accorgersi che era proprio Gesù e se mi rispondesse che lo
sentiva non potrei che chiedergli di darmi una prova evidente di quello che sostiene, prova che in
scienza è necessaria per giustificare ogni affermazione. La scienza però non ha niente a che fare con la verità, bensì con gradi di plausibilità.
Nessun fisico che conosco direbbe che la descrizione del mondo della fisica è identica alla realtà.
Nessun fisico può spiegare il perché della causalità, nessun fisico può spiegare il perché della
gravitazione. Come si può dire che la fisica è la realtà se la base della fisica non è nota. Nessuno sa
se questo mondo è esteso, nessuno sa se la luce viaggia; non si capisce come la luce immateriale
abbia una velocità, seppur grande; ci sono i paradossi di Einstein per cui la velocità della luce non è
additiva. Probabilmente non esiste la velocità, soltanto quando noi misuriamo ci sembra che esista.
Nessuno può spiegare se la luce è corpuscolare o è un onda. Certi esperimenti presuppongono sia
un'onda, altri che siano corpuscoli. Questa non è verità. Questa non è la realtà.
- Esiste soltanto il mondo delle persone: konsensuelle Bereichs...
Sì, certo. Il mondo consensuale ci dice che talvolta sono corpuscoli talvolta onde. A volte ci dice le
luce viaggia, che ha una velocità. Dall'altra parte ci sono i paradossi di Einstein, la meccanica
quantistica è piena di paradossi. La realtà è piena di paradossi.
Roth: ritengo che non si possa fare una teoria della mente senza tutti i dati della neurobiologia, in quanto le speculazioni possono andare in qualsiasi direzione, ma spesso le verità sono controintuitive.
Le caratteristiche dell'avere un'esperienza personale, del modo in cui pensiamo e di come percepiamo il mondo, non sono identiche a quelle dei processi cerebrali che hanno luogo nel cervello. Noi non percepiremo mai i meccanismi di sincronizzazione o l'attività diffusa, la topologia, della corteccia perché la nostra esperienza personale è illusoria in questo senso. È parte del senso comune pensare che ci sia un'istanza che pensa, che ragiona, che ha una certa percezione, ma poi studiando il cervello ci si rende conto che queste attività sono tutte in parallelo e distribuite. L'attività neuronale ha una forma molto diverso rispetto all'attività cosciente delle sensazione che noi sperimentiamo, tale esperienza è infatti un'illusione creata dal nostro cervello.
-L'esistenza della mente come la conosciamo attraverso l'introspezione è dunque fallace. Ma allora perché parliamo di mente e non solo di processi neuronali quando cerchiamo di spiegare l'attività cosciente umana?
Roth: da una parte si può dimostrare che quando abbiamo certi pensieri, certi sentimenti, c'è sempre un relativo substrato neuronale nel cervello. È possibile che un certo pensiero sia rappresentato da diversi processi neurobiologici, ma c'è necessariamente un rapporto tra stato mentale e stato cerebrale. Se si studiasse per lungo tempo un cervello di un individuo, alla fine, si potrebbe indovinare quello che pensa e quello che vede. Se lo si facesse bene si noterebbe che per ogni sensazione, ogni pensiero, ogni percezione e ogni emozione esiste un determinato substrato neurobiologico definito. Quindi si potrebbe identificare l'attività neurobiologica con l'attività mentale. Dall'altra parte però dal solo studio del cervello e della sua attività non si può capire, dall'aspetto neurobiologico e dal comportamento delle cellule, il significato, il “ meaning” di tale attività, che può essere determinato solamente dopo esperimenti psicologici, per esempio chiedendo ad una persona cosa pensava o cosa provava durante gli esami neurobiologici.
Dalla sola attività della corteccia, non si può determinare ciò che quella attività significa, tale significato non è per niente evidente. Se invece si domanda al paziente: hai visto qualcosa? Ed egli risponde per esempio: “sì, una freccia rossa”, a quel punto registrando l'attività della corteccia si può affermare che quei determinati processi sono l'equivalente di “vedere una freccia rossa”, ma dall'attività neurobiologica soltanto non si può dedurre niente. Soprattutto si deve considerare che quello che è il substrato della coscienza e della percezione, nella mente, non è determinato soltanto dall'attività che si può misurare, è molto di più. Si possono misurare poche cose dell'attività delle sinapsi.
In realtà c'è molto di più. Quindi non si può sostenere che un pensiero non sia nient'altro
che il “firing” di una certa popolazione neuronale, perché ciò non è vero; è molto più complicato e
dobbiamo ammettere solamente che quando i neuroni interagiscono in un certo modo emerge la
coscienza o un pensiero ed il rapporto è sempre di uno ad uno: uno stato mentale implica uno stato
neuronale, ma non si può ridurre l'esperienza all'attività neurobiologica.
-Per quanto riguarda la coscienza lei dice che il cervello produce la coscienza e fornisce le prove
delle basi neurofisiologiche di questa produzione. Si può dire che questo spieghi la coscienza?
Roth: In un certo senso sì. Nei miei ultimi libri ho riformulato il concetto di coscienza fino ad arrivare a considerare almeno dieci tipi diversi di coscienza e si può mostrare come tutte queste coscienze abbiano un sostrato definibile nel cervello. D'altra parte però si può anche spiegare perché abbiamo bisogno della coscienza. Per esempio senza la coscienza non sarebbe possibile rendersi conto di ciò che si vede e si legge. In oltre anche la verbalizzazione è basata sulla coscienza. Possiamo avere percezioni non coscienti ma non possiamo darne conto in un atto verbale. Non possiamo effettuare alcun “report”. Ogni atto verbale prevede coscienza. Essa è dunque una forma di “information porcessinig”. Si può perciò spiegare la funzione della coscienza nell'ambito delle leggi naturali e dell'information processing. Non c'è un aspetto mistico in essa, anche se nessuno può esattamente spiegare come funziona. Forse in futuro ciò potrà avvenire...
-Che rapporto esiste invece tra processi consci ed inconsci? Cosa possiamo conoscere della nostra
mente e cosa ci rimane inaccessibile?
Roth: questo è un problema di sviluppo individuale. I centri che producono l'Es (i processi inconsci)
si sviluppano molto prima dei centri che producono la coscienza, i quali si basano sull'attività della corteccia. Tutto quello che un neonato percepisce è o inconscio o comunque non può essere ricordato, non può essere memorizzato a livello cosciente. Forse il neonato può sviluppare prima dei tre anni processi consci, ma non può ricordare tali processi, perché la memoria non è ancora completamente sviluppata.
In oltre l'attività dell'amigdala e del sistema limbico è inconscia. Questi sistemi, del resto, si sviluppano molto prima e poi dominano il nostro comportamento decisamente più che i processi consci, che si sviluppano più tardi e non hanno poi grande influsso sul nostro comportamento rispetto a quegli inconsci; infatti il 90 per cento di ciò che facciamo è basato su processi inconsci.
C'è anche un altro punto importante: molte cose che un tempo erano coscienti (erano state apprese attraverso processi consci) ora non lo sono più sono pre-coscienti, intuitive.
Il 70 percento dei processi mentali sono “fuori dalla corteccia”, inconsci, prodotti dal sistema limbico. In oltre nella memoria a lungo termine si trovano tracce delle cose che una volta abbiamo imparato coscientemente ma che ora sono “sommerse”, sono diventate intuitive, automatizzate.
Tutto ciò è importante poiché questi processi guidano il nostro comportamento senza che ce ne
rendiamo conto. Pochissima parte del nostro comportamento viene regolato dalla ragione cosciente, poco, pochissimo, l'un per cento.
Questa è perciò la relazione che esiste tra pre-cosciente, incosciente, intuitivo e la coscienza acuta: tre anni fa ero a Siena e ho fatto tante cose, ho parlato con alcune persone e ho visto determinate cose, queste esperienze però non sono più presenti in dettaglio. Solamente quando sono di nuovo a
Siena questa memoria inconscia(delle esperienze già vissute) si riattiva, mi guida, anche se non mi posso rendere conto (non posso accedere in prima persona) che cosa sia che mi guida. Ero con il professor Nannini in un ristorante e ho mangiato qualcosa che mi ha fatto stare male, sono quasi morto. Adesso solo questo ricordo è presente coscientemente, tutto il resto (delle esperienze) mi guida ma non è presente coscientemente, almeno non in modalità attenzionale (non posso rendermi conto che tali esperienze mi guidano).
-Ultimamente stanno emergendo sempre più conoscenze sui processi del cervello. Molte scoperte
portano ad ammettere che l'io non esista e che sia un'illusione, lei cosa ne pensa?
Roth: Sì, io ho molto lavorato, negli ultimi tempi, con psicologi dello sviluppo dell'infanzia e insieme abbiamo verificato come si possa dimostrare l'esistenza di diverse fasi dello sviluppo dell'io del bambino. Ad esempio una forma di io estremamente primitiva è quella che permette al bambino di riconoscere i propri bisogni. Sviluppatasi questa capacità si evolve l'io dell'identificazione di sérispetto alla madre, poi l'io come agente, cioè la padronanza dei propri movimenti; l'io sociale e l'io linguistico si sviluppano più lentamente. Si può dimostrare che l'evoluzione di queste forme di io parallela a quella del cervello.
L'io però è sempre un “label”, un attributo, non un meccanismo. Per esempio quando un bambino fa
qualcosa e sente la madre dire frasi del tipo: “Tu sei stato bravo”. Prima deve imparare che quando la madre afferma: “io ti dico che tu...” si riferisce a se stessa, poi deve capire che il “tu” è lui stesso.
Questo avviene in un certo periodo dopo il quale il bambino capisce che il “tu” è lui e allora capisce
(apprende il concetto) anche che tutto quello che è controllato dal suo corpo e dalla sua mente è il
suo “io”. In realtà però l'io non è una sostanza che controlla tutto, è un “label” un'istanza unificatrice.
Allora si può dire che da una parte l'io è un'illusione: l'illusione che l'io stia al di sopra di tutti gli
altri processi mentali e li controlli. Dall'altra parte però senza la costruzione dell'io gli uomini non
potrebbero agire. Per esempio pazienti che hanno perso l'istanza unificatrice dell'io non sono in
grado di agire nel mondo.
La mia posizione è che da una parte l'io è una costruzione del cervello che non esiste di per sé,
come sostanza, ma allo stesso tempo senza questo principio compositivo l'uomo non potrebbe agire.
Allo stesso modo nella società umana esistono delle costruzioni, come la dignità dell'uomo, che non
hanno una realtà fisica, ma sono concetti molto importanti. Concetti illusori possono essere molto importanti, democrazia per esempio!
-Nel cervello si può riscontrare una regione che può essere considerata la sede dell'io?
Roth: di io differenti! Esiste, per esempio, una regione della corteccia prefrontale chiamata pre- SMA (Supplementary Motor Area) che si attiva solamente quanto agiamo in conformità con la nostre motivazioni interne. Tale area si attiva solamente nel caso in cui sentiamo che la nostra azione è guidata da un bisogno spontaneo ed interno al corpo e non ci sono motivazioni imposte dall'ambiente esterno. Si deve notare che se in un paziente si stimola elettricamente questa regione
egli inizia un'azione e afferma di averlo fatto per sua volontà. È evidente invece che è stata la stimolazione elettrica a determinare tale azione.
È molto complicato capire il circuito neuronale che determina i motivi che ci spingono, per esempio, ad alzare un braccio. O tali motivazioni vengono da fuori, come nel caso del comando: “alza il braccio”, o vengono da dall'interno del corpo. Solo quando mi rendo conto che tali motivazioni provengono dal mio corpo, da me stesso quindi, posso sviluppare il concetto di “io agente”. Mi rendo conto cioè che sono il fautore dei miei atti.
Questo è solo un esempio di come l'io emerga dal cervello, ma ci sono molti altri tipi di io: della percezione, del linguaggio e della memoria, per citarne alcuni, e tutti questi tipi di io, quando ne diventiamo coscienti, posseggono diverse localizzazioni nella corteccia. Si può dimostrare subito, ad esempio, come a causa di una lesione del cervello il senso dell'io come agentività possa scomparire mentre senza che ciò disturbi la percezione e la capacità intellettiva; pazienti con tale lesione hanno l'illusione che qualche forza esterna li guidi.
Un altro esempio può essere fornito studiando la capacità di riconoscersi allo specchio. Può succedere che alcuni pazienti si alzino la mattina e vedano nello specchio, al posto di loro stessi, una persona che non conoscono. Questo accade perché i centri parietali che sono addetti al riconoscimento del viso solo lesionati o distrutti e non si può riconoscere nessuno, nemmeno se stessi. Dall'altra parte, pur non riconoscendosi nello specchio, il resto del loro io è sano e quando fanno qualcosa affermano tranquillamente“sono io che lo faccio”, ma non riescono a riconoscersi nello specchio. Allora si può intuire come i diversi io siano distribuiti nella corteccia quando sono coscienti, altrimenti se ci fosse un solo centro dell'io ci sarebbe un tutto o nulla; o l'io c'è o l'io non c'è. Invece come ho mostrato può darsi che alcune forme di io sussistano anche se altre sono sparite, questo perché la loro distribuzione nella corteccia è altamente differenziata.
-Un altro annoso problema con il quale oggi le neuroscienze si confrontano è quello del libero
arbitrio. È un problema ancora più grande di quello dell'io perché tutte le persone si sentono libere...
Roth: Non tutte! Ci sono pazienti che affermano: “io non sono libero, una forza dentro di me mi
dice quello che devo fare, io non sono libero”. Si potrebbe anche citare chi soffre di impulsi
ossessivi: egli è costretto a fare qualcosa, come lavarsi le mani ogni cinque minuti, lo deve fare!
Ne è obbligato a causa di una malattia che attacca i gangli basali. Il suo cervello lo obbliga ad agire
senza che egli possa compiere una scelta libera.
Quando abbiamo molta sete, in ogni caso, dobbiamo bere, non siamo liberi, può succedere che si
beva anche se l'acqua è sporca e non ci sentiamo liberi, siamo spinti da un bisogno molto forte.
Perciò possiamo dire che sentirsi liberi significa: non c'è una forza esterna o interna che ci comanda,
che ci domina e l'assenza di queste due forze significa “essere liberi”. Queste sono le precondizioni,
questo basta. Gli psicologi che studiano le condizioni nelle quali le persone dicono “io mi sento
libero...a partecipare a questo convegno o a bere o a non bere un caffè, ecc.” assumono
semplicemente che essi siano liberi se nessuno li costringe e potrebbero agire altrimenti. Se ad
esempio ho davanti del tè e del caffè, la libera scelta, io scelgo il tè invece del caffè e mi sento
libero. Se tu mi domandi chi ha deciso per il tè invece che per il caffè, io affermo:io! Sentirsi liberi
basta per la gente. In realtà studiando il cervello umano si potrebbe determinare esattamente quali
siamo i processi cerebrali che hanno spinto a prendere il tè invece del caffè. Si possono spiegare i
motivi totalmente. Allora io mi sento libero quando ho una scelta, ma questa scelta è determinata
dai miei geni, dall'esperienza infantile, dalle esperienze fino ad oggi e tutti questi motivi mi
determinano in continuazione.
Se si studiano a livello neurologico e psicologico le persone che bevono indifferentemente caffè o
tè, non si potrà dire preventivamente se prenderanno uno o l'altro. Infatti quando i motivi per
effettuare una scelta si equivalgono, non ne esistono di prevalenti, può darsi che per scegliere si sia
costretti addirittura a ricorrere al dado, al caso. Questo significa che a volte i meccanismi del
cervello non trovano una motivazione forte per una soluzione o per l'altra. Non sempre quindi il
nostro cervello determina esattamente le nostre scelte.
Hume affermava: “siamo liberi, ci sentiamo liberi, quando abbiamo una scelta”.
Quando decidiamo qualcosa, questo evento è sempre determinato dalla nostra personalità. Bisogna
rendersi conto che la possibilità di decidere, la possibilità kantiana di decidere senza pulsioni, è
assurda, non esiste. Quando Kant scriveva parlava principalmente della moralità. La moralità è
agire contro i propri interessi, contro le proprie motivazioni interne. Per esempio se vedo qualcosa
di molto attraente e nessuno mi guarda potrei volerlo rubare, ma non lo faccio per senso morale.
Anche aiutare un amico, o la propria moglie non è morale, perché dettato dal sentimento. La
moralità è la coscienza della moralità. La moralità ha ragione in se stessa diceva Kant, ma questo è
assurdo!
La gente ruba quando le probabilità di non essere presa sono minime; poche persone lo fanno anche rischiando. La ragione, quindi, entra in gioco solamente per calcolare le probabilità di successo, l'essere morale invece deriva dall'educazione ricevuta. La moralità è basata sull'esperienza individuale e sociale. Io, per esempio, sono stato educato da mio padre e dalla mia famiglia a non rubare anche se nessuno se ne accorge. Perché diventi un sentimento morale, però, un precetto deve essere ripetuto molte volte. È educazione. La libertà morale di Kant non esiste: la moralità è educazione.
Per esempio, se accade che ti facciano molto arrabbiare e tu non uccida chi ti ha offeso significa che
hai imparato a controllare i tuoi impulsi, che quella è diventata la tua natura, oppure che il tuo
cervello ti ha allertato che ti possano prendere e mettere in prigione. Se però perdi veramente il
controllo e uccidi, in tribunale il giudice ti condanna: “tu avevi la possibilità di resistere alla
tentazione, e non l'hai fatto, sei responsabile delle tue azioni” dirà. In realtà tu potresti sostenere che
ciò non era sotto il tuo controllo. Non sei responsabile dei tuoi geni e della personalità che ti hanno
portato a fare quel gesto. Questo è un grosso problema etico che non si può risolvere in quanto il
nostro diritto penale è basato sull'idea della libera volontà, che non esiste. O tu resisti perché hai una
certa educazione e certi geni o non resisti perché hai un'altra educazione.
Noi studiamo i giovani criminale e investighiamo i motivi per cui commettono dei reati e possiamo
sostenere che il 20, 30 per cento del loro comportamento è influenzato dai geni e il resto
dall'educazione, della famiglia in primis. Essi non sono mai liberi in quanto questo tipo di
determinazione avviene nei primi anni di vita, quando non siamo ancora coscienti a pieno. Poi ci
condiziona per tutta la vita.
Il settanta-ottanta per cento della nostra personalità si forma durante l'infanzia. Molti studi
dimostrano che nello sviluppo della personalità e del comportamento i geni hanno un'incidenza del
20/30 per cento; almeno 50 per cento viene dall'esperienza primaria, da neonato fino a tre anni, poi il restante 20 per cento è determinato dall'esperienza da adolescente e da adulto. Questo vale per tutti, per persone normali, ma anche per criminali e pazienti. Noi cresciamo con una personalità che si forma molto presto, di cui non abbiamo nessuna coscienza. Dobbiamo ammettere l'idea di essere controllati da forze che non riconosciamo. Ognuno ha la sua personalità, ma non abbiamo nessun idea da dove venga tale forma. Solo dopo uno studia approfondito di molti anni si può determinare se un tratto della personalità venga dai geni o dalla prima infanzia e così si può ricostruire l'intera personalità. Ed è quello che facciamo con i giovani criminali. Sono soprattutto tecniche psicologiche quelle che usiamo, anche studi del cervello, ma soprattutto tecniche psicologiche.
Facciamo interviste, facciamo indagini sulla famiglia. Assenza di padre, madre drogata, mancanza
di soldi, niente educazione, miseria. Da ciò si può capire come evolve la personalità di questi
ragazzi, in modo quasi standard. Dire che avevano la libertà di non rubare non esiste.
- Concluso il tema del libero arbitrio, lasciandoci dietro molte domande aperte, come ogni dialogo
deve fare, la vorrei interrogare su di un tema più metafisico, nel senso di riflessione sulla fisica, in
questo caso sulla neurobiologia. Lei ci dice che il cervello “crea” la realtà, che ciò che percepiamo
non è una semplice rappresentazione della realtà, ma una vera e propria costruzione “Bildung”. La
realtà che il cervello crea è piena dei nostri ricordi, delle nostre emozioni; è un mondo fenomenico.
Lei la chiama Wirklichkeit. Ce la può descrivere?
Roth: Questa è un'idea che è diventata molto comune nella neurobiologia di oggi, nessuno avrebbe
qualche dubbio che è così.
Quando tu visiti un certo luogo per la prima volta tutto è nuovo, interessante. Quando ritorni nello
stesso luogo una seconda o una terza volta tutto è interessante, ma non come la prima volta. Se vivi
in un posto per dieci anni, poi, lo vedi completamente diverso dalla prima volta. Anche in amore è
così. Tu ti innamori di una bellissima ragazza, poi se vivi con lei per dieci anni ti scordi di perché ti
appariva così bella!
Quella dei sensi è sempre un'attività selettiva, ma noi vediamo il mondo sempre attraverso la nostra
memoria. La memoria non riflette il mondo esterno. La stessa memoria a lungo termine riscrive
sempre la nostra esperienza, ogni giorno. Essa non è una conoscenza statica, è un processo: se torni
in un luogo dove sei già stato, questa percezione ti viene riformata in modo sempre diverso. Allora
dobbiamo riconoscere che l'uomo vede il mondo più o meno identico, ma sempre in relazione ai
dati forniti dalla memoria.
Il cervello vede quello che aspetta. All'inizio, appena nati, prima di nascere, in realtà, siamo come
ciechi. Il cervello deve fare un'interpretazione di quello che vediamo una prima volta. Questo
meccanismo di interpretazione che inizia con la nascita, prima della nascita e non termina che con
la morte implica come suo costituente che ogni volta che si ha una nuova esperienza
l'interpretazione viene attualizzata modificandone o rinforzandone certi aspetti. Ogni volta il
cervello crea un nuovo mondo basato sulla nuova esperienza. È un processo totalmente interno. Se
conosci una persona da dieci anni sai che non è identica a come l'hai conosciuta dieci anni prima
perché nel frattempo hai vissuto un lungo periodo di tempo che ti ha riscritto tutte le esperienze che avevi memorizzato.
Il nostro grande cervello percepisce ciò che si aspetta. Noi vediamo ciò che aspettiamo basandoci
sulla memoria. Spesso siamo consapevoli solo delle variazioni che un esperienza ci presenta rispetto alle caratteristiche registrate attraverso la memoria. Se questa differenza appare molto profonda il cervello riscrive e modifica il contenuto dell'esperienza, se altrimenti la differenza è minima il cervello vede ciò che si aspetta di vedere in base alle sue precedenti percezioni, e questo, a volte, è anche estremamente pericoloso. Una cosa molto comune deriva, ad esempio, dall'incontro con un amico che ha portato la barba per 10 anni e se la taglia. Quando lo vedi dopo il cambiamento o non percepisci alcuna modificazione o vedi qualcosa di vago che ti disturba, ma non riesci a capire cosa.
Non percepisci immediatamente che non ha più al barba perché il cervello ti fa percepire il mondo
su per giù come se lo aspetta e ci vuole del tempo perché riscriva le nuove informazioni dando vita
ad una nuova esperienza percettiva. Questo è molto pericoloso, come dicevo in precedenza, se
stiamo guidando nel traffico su una strada che percorriamo costantemente da 10 anni. Può
succedere di non accorgersi di eventuali nuovi cartelli che segnalano che quella strada è ora senso
unico perché la nostra percezione è oscurata dall'abitudine, dalle nostre esperienze passate; è come
essere ciechi!
Tutto questo avviene perché per il nostro cervello è molto pratico basare la percezione sulla
memoria e riscrivere i dati in suo possesso solo in presenza di grandi differenze è un risparmio di
energia!
- A questo punto devo chiederle quale sia l'illusione per cui si crede di essere in prima persona gli
autore delle proprie scelte quando invece è un sistema complesso mente-cervello che ci rende ciò
che siamo.
Roth: L'illusione è che ci sia un io che è padrone. Se uno accetta la propria personalità, il fatto che
si è sviluppata dai geni e dall'esperienza passata, allora si accetta il proprio essere. Allora può dire:
“questo sono io”.
Io sono composto da un mosaico di tante cose. La possibilità di cambiare la propria personalità è
limitata in età adulta. Bisogna accettarsi. Siamo come siamo. Così sparisce anche l'ansia. Si deve
semplicemente accettare quello che siamo. La personalità è controllata dall'inconscio, non solo
freudiano. È controllata da tutto ciò di cui non ci rendiamo conto, come ad esempio le intuizioni, e
dalle esperienze passate che non si ricordano coscientemente, ma alle quali si può accedere con la
coscienza attraverso la memoria. Anche i pensieri sono guidati da componenti inconsci di cui non ci
rendiamo conto. Ciò va accettato. Nonostante tutto esiste comunque la scelta! Solo che ogni scelta
sta entro l'ambito della personalità. Per esempio, un amico ti propone di andare al cinema e tu
accetti, poi ci pensi meglio e dici di no, ma non sai perché. Se finalmente viene fuori che non vuoi
andare al cinema per la paura di essere circondato dalla gente, ad esempio, ne diventi consapevole,
ma non sai comunque perché hai questa fobia. Nonostante la consapevolezza, rimangono celati i
motivi profondi del perché le cose stanno in un certo modo e non in un altro. E questo accade
spesso. Noi facciamo e diciamo delle cose di cui non sappiamo spiegare il perché. Se tu mi domandi
perché vuoi restare a casa nonostante sia un film molto bello io invento qualcosa, ad esempio, che
devo finire un compito, ma non è vero, in realtà, ho paura.
Spesso la gente dà spiegazioni molto complicate dei propri comportamenti perché nel profondo non sa perché agisce in quella determinata maniera e inventa, dando motivazioni superficiali. Mi accade spesso di verificare questo fatto quando parlo della mia professione con dirigenti dell'economia tedesca. Sovente tendono ad aver bisogno di esplicitare di essere in un determinato modo; hanno bisogno di riconoscersi ed affermarsi come ambiziosi e lavoratori. Potrebbe essere tutto falso, ma loro hanno bisogno di auto-rappresentarsi un quadro unitario della propria personalità. Solo se si accettano invece i fatti suddetti l'ansia di vivere sparisce; tu sei come sei.
- Il problema della personalità desta in me grande stupore. Ancora di più però c'è un punto della sua
teoria che mi affascina e mi sconvolge. Esattamente quando lei dice che la differenza tra mente e
cervello è una differenza all'interno del mondo fenomenico. (quindi una differenza apparente, non
reale). Ci può spiegare meglio?
Roth: io da neurobiologo mi metto a spiegare come il cervello produce la mente: faccio esperimenti
sul cervello. Quello che vedo dall'esperimento però è un cervello che il mio cervello ha creato. Lo
vedo davanti a me, ma tu invece puoi mostrare, attraverso un altro esperimento che è la mia corteccia visiva che ha creato il cervello che sto osservando. Quello che faccio, la mia mano quando
la vedo, è una costruzione del mio cervello. Tutto quello che vedo è una costruzione del mio cervello. Attraverso la fMRI posso vedere il mio cervello, ma in realtà non è il mio cervello, ma un cervello costruito dal mio cervello. Anche io sono un costrutto del mio cervello! Ogni mia esperienza è una costruzione del mio cervello. Il cervello che mi crea non esiste nella mia esperienza.
- Io: è incredibile!
Roth: Nessun neurologo avrebbe dubbio che è così. Io vedo la mia mano e domando al neurologo
dove si forma l'immagine che vedo ed egli mi risponde: nel cervello. Io sento qualcosa e mi
domando dove sta accadendo? Nel cervello, ovviamente! Allora la conclusione logica è che esiste
un mondo esterno reale dove esistono uomini, dove esisto anche io, (un uomo chiamato con il mio
nome ed un cervello): questa è la realtà (speriamo)!
Il mondo dove esisto io (come percezione di sé) è stato invece costruito da quell'uomo con quel
cervello ed il mio nome, ma io non lo potrò mai vedere! Tutto quello che vedo e sento è una
costruzione del cervello. Dobbiamo ammettere che c'è un mondo reale dove esistono gli uomini e
gli animali con dei cervelli che costruiscono mondi attuali (fenomenici), ma per noi questo mondo
attuale è il solo mondo che esiste, l'unico che possiamo conoscere e non possiamo vedere oltre.
Anche se studio il mio cervello non posso trascendere la realtà fenomenica perché ciò che vedo è
costruito dal mio cervello. Io non posso oltrepassare questo mondo. Anche logicamente non è
possibile. In questo momento, mentre parliamo, due costruzioni parlano in una mente che porta il
mio nome e quando tu ti percepisci discutere c'è una creatura con il tuo nome nella cui mente
avviene la conversazione ed abbina ai nostri costrutti la parola Io e la parola Tu.
- Come è possibile che due costruzioni che stanno in due menti (la nostre) che sono individuali,
separate, entrino in contatto. Come è possibile che si svolga una discussione tra noi se siamo
ognuno nella mente dell'altro?
Roth: Nel mio libro "Bildung braucht Persönlichkeit" ho trattato questo problema di nuovo. Ancora
una volta mi sono chiesto come, se ognuno è imprigionato dentro se stesso, sia possibile capirsi.
Capire l'altro è un risultato di un lungo processo. Noi ci capiamo perché siamo esseri umani. Questo
significa che possiamo capire l'espressione del viso, i gesti, gli aspetti emozionali degli altri, ci sono
cose che capiamo spontaneamente. C'è comprensione anche senza parole. Inoltre possiamo parlare
la stessa lingua, ad esempio l'italiano. Vale la pena sottolineare che ci saranno sempre delle
differenze nell'uso della lingua, ad esempio tra me e te, perché io sono stato educato in Germania e
tu in Italia. Anche dopo quarant'anni di confronto con gli italiani ci sono sempre cose che non
capisco. Tra gli italiani stessi ci sono delle differenze: due italiani nati entrambi a Milano si
capiscono meglio di uno nato a Milano e uno a Roma perché hanno ricevuto lo stesso tipo di
educazione. È difficile capirsi anche se si proviene da classi sociali diverse. Più l'educazione è
simile e più è facile capirsi. Questo serve a spiegare come la comprensione non sia un meccanismo
diretto, dagli stimoli di un cervello ad un altro. È il tuo cervello che ricostruisce gli stimoli percepiti
e, parallelamente, ogni cervello ricostruisce più o meno allo stesso modo gli stimoli in quanto i
meccanismi che compiono tale processo sono gli stessi.
Anche se si vive in stretto contatto per anni non si può mai essere certi di capire quello che succede
nella mente altrui. Ad esempio mia zia diceva di mio zio, dopo che era morto, che era un uomo
buono, ma in realtà era una sua costruzione, perché quello che succedeva nella sua mente non lo ha mai capito. Quindi si potrebbe sostenere che capirsi è una costruzione che due cervelli fanno in
parallelo l'uno dell'altro senza però potersi concludere con una reale comprensione e
compenetrazione reciproca. Ognuno vede il mondo secondo la sua esperienza e se le esperienze
sono molto simili, allora due persone vedono il mondo in maniera quasi uguale, mentre, se le
esperienze sono diverse il mondo è visto in maniera molto diversa. Uno che viene dalla classe
operaia è difficile si capisca con uno che viene dalla classe capitalista e se lo fa è perché hanno un
background di conoscenze/esperienze comuni.
- In questo mondo contemporaneo si parla molto di oggettività, ma alla luce di quello detto fin qui,
come si risponde alla domanda: che cos'è la verità?
Roth: Questa è una domanda che mi faccio sempre mentre compio le mie ricerche. Quando la
concezione del mondo è abbastanza stabile, si crede, ad esempio, nelle verità della chiesa, nella
parola del Papa, nelle affermazioni del governo, allora si può sviluppare un concetto di verità.
Credere in Dio, nel paradiso, nelle istituzioni in generale, permettere di credere in certe verità.
Il mondo però è in continuo cambiamento e non esiste verità. Ogni giorno ognuno di noi fa
esperienze sempre nuove e diverse che rendono continuamente rinnovabili le nostre conoscenze.
Anche nella mia scienza (la neurobiologia) è così. Dieci anni fa, ad esempio, alcuni esperimenti
portavano a credere ad una certa verità, che poi in base a nuovi esperimenti si è dimostrato essere
falsa; in realtà tempo dopo ancora, si è tornati sostenere la prima interpretazione e a ritenere che
quella fosse la verità e non l'altra. Ad esempio, per quanto riguarda l'intelligenza, in Inghilterra
Cyril Burt aveva fatto esperimenti sui gemelli monozigoti scoprendo che il 50% dell'intelligenza
deriva da caratteri ereditari. Questo non piaceva alla comunità degli psicologi del tempo, i quali
erano felici della mancanza di dati a sostegno di questa tesi, tanto che anche il suo discepolo Hans
Eysenck dovette negare la verità proposta del suo maestro. Sorprendentemente anni dopo si scoprì
che aveva ragione proprio Burt! Niente vieta comunque che in futuro si possa scoprire che in realtà
si sbagliava veramente.
Ogni volta che apro una rivista scientifica, soprattutto, leggo che molte delle verità che possediamo
e delle cose che pensiamo non sono più giustificate. Questa è un'esperienza molto comune tra gli
scienziati nel mio campo; allora cosa sarebbe la verità? Attraverso quale processo potremmo trovare la verità? La stampa dice la “verità”, il papa dice la “verità”, ma se io pubblico un articolo
scientifico non posso dire: questa è la verità. Posso solo portare degli esperimenti che non risultino
stupidi e, se confrontati con gli studi sul cervello dell'esperienza neuroscientifica degli ultimi cento
anni, risultino coerenti ed con risultati plausibili. La verità non esiste perché non c'è alcun modo per
trovarla. Articoli possono smentire altri articoli; si può dimostrare che alcuni esperimenti sono stati
eseguiti male e che quindi i risultati non sono attendibili, ma mai affermare che quella sia la verità.
Ci sono delle verità logiche, ma quello che ci interessa sono le verità empiriche e queste possono
essere ricercate solo attraverso la plausibilità, la coerenza e la consistenza di dati.
- La verità è allora un processo in divenire che sempre si rinnova in base a nuovi dati?
Roth: no, non si può proprio parlare di verità. Un filosofo potrebbe, per assurdo, affermare di
credere in Tommaso D'aquino e rifiutare le affermazioni della scienza dicendo che sono tutte
sbagliate. Noi crediamo che la scienza incrementi incessantemente le nostre conoscenze ma non lo
sappiamo con certezza. (Con tono ironico,ndr): Potrebbe essere un errore totale e potrebbe aver
avuto ragione Tommaso o Aristotele o Gesù.
Spesso i miei studenti mi chiedono: professor Roth, esiste una vita dopo la vita? Io rispondo: non lo
so. Quello che posso dire è che non esiste nessuna evidenza dell'esistenza di una vita simile a quella
di adesso dopo la morte. Se c'è una vita può essere solo totalmente diversa dall'esperienza che
viviamo in questa terra. Non possiamo saperlo. Ad esempio il dogma della verginità di Maria è
un'affermazione empiricamente indimostrata; non si è mai verificato nessun caso di concepimento
senza inseminazione. La chiesa nonostante questo continua a sostenere il dogma della verginità che si regge, comunque, su un errore di traduzione. Infatti nel testo originale si parla di “donna giovane” non di donna vergine. Nelle successive traduzione, dopo l'errore, è stata mantenuta questa
traduzione. Ogni teologo sa di questo errore, anche il Papa, ma nonostante questo continuano a
sostenere il dogma illogico della verginità. In ogni caso è una “verità”che non fa parte del mondo
indagato dalle scienze naturali, cioè di questo mondo. Si potrebbe anche sviluppare un concetto di
anima all'interno delle scienze naturali identificandola con la psiche, ma se si parla di anima
immortale allora io mi domando quale sia l'evidenza empirica che permette di affermare tale
“verità”.
- Dopo la morte io so che fine fa il mio corpo, so come si evolvono i processi di decomposizione del
corpo, ma non ho idea di cosa succeda alla mia psiche, ai miei pensieri ai miei ricordi, anzi questi,
come entità fisiche non sono nemmeno mai esistite.
Roth: perché no? Certo che sono esistiti, sono stati prodotti dal cervello. Il pensiero è uno stato
fisico. É un po' strano, ma le emozioni esistono fisicamente. Se tu studi sotto quali condizioni il
cervello produce i pensieri puoi descrivere tali processi. Il pensiero, la mente sono entità fisiche.
Sembra strano ma non c'è dubbio di ciò. Lo testimonia il fatto che quando si pensa intensamente il
nostro cervello consuma più energia, ossigeno e zucchero. I pensieri, la mente sono entità fisiche
perché seguono le leggi della fisica e dell'evoluzione e se questa macchina, il cervello, sparisce
allora anche la mente sparisce, nel senso di come noi la sentiamo. Da teologo si può credere che la
mente sia qualcosa di diverso, ma da scienziato io posso domandare solamente quali sono le
evidenze per sostenere tali affermazioni. Tutte le evidenze sono che quando muore il cervello muore anche la mente. Ciò si vede anche con il deperimento dell'organo cervello nella vecchiaia che
corrisponde con un deperimento della mente, come nei casi di alzheimer e di demenza senile ad
esempio.
Se esistesse un'anima che sopravvive alla morte dovrebbe essere un'anima che nel nostro mondo
empirico non esiste. Io da agnostico posso dire: non lo so. Come filosofo del costruttivismo io non
posso dire: Dio non esiste. È vietato. Se si volesse dare di Dio una concezione empirica allora potrei
dire che Dio non esiste in quanto non ci sono prove di tale entità, ma se tu mi dessi una concezione
non empirica di Dio io potrei dire semplicemente: non lo so. Parlare di Dio equivale a dire che
esiste un pianeta che ha tanti aspetti interessanti ma che non è percepibile. Dipende quindi dal
concetto che si ha di Dio, se si vuole abbracciare un punto di vista costruttivo.
Per concludere vorrei ritornare sul concetto del “parlare” come elaborazione interna al cervello,
qual'è il sostrato che ci permette di elaborare un'interpretazione delle intenzioni del parlante?
Roth: Noi abbiamo una base genetica per capire la lingua umana. Questa capacità si sviluppa
nell'emisfero sinistro del cervello. Se io incontro un uomo che parla una lingua straniera, anche se
non capisco ciò che dice, capisco che è un uomo e che sta parlando una lingua umana perché questa possibilità di comprensione è geneticamente determinata. Se passo del tempo con lui, piano piano, capirò alcuni significati che attribuisce a determinati vocaboli fino ad arrivare alla comprensione del suo circolo linguistico, in un movimento quasi a spirale.
- La Realitaet invece è la realtà fisica?
Roth: no, questo non si può dire perché se diciamo che la realtà fisica è la vera realtà non ci
rendiamo conto che anche la fisica sia una costruzione del nostro cervello. La vera realtà possiamo
solo sperare che esista, perché altrimenti diventa difficile spiegare molte cose, ma è sicuramente
inconoscibile. Noi non possiamo descrivere la realtà perché dobbiamo usare il nostro linguaggio che
deriva dalla nostra mente e quindi dalla nostra Wirklichkeit (realtà fenomenica).
Ad esempio se diciamo che i colori non esistono realmente, dobbiamo chiederci cosa esista allora?
Le frequenze della luce, potremmo rispondere, ma luce e frequenze che cosa sono? Sono concetti
fisici. Sono costruzioni. Possiamo scrivere una formula per descrivere l'andamento delle frequenze
della luce, ma una formula è una costruzione esclusiva della mente. Non c'è nessun modo per
descrivere la realtà indipendentemente dalla nostra esperienza. Anche se riduco la fisica alle
formule matematiche queste formule devono essere apprese da una mente, richiede uno studio di
molti anni. È una costruzione che io mi faccio, anche se credo che il mondo segua queste leggi
naturali. Bisogna rendersi conto che anche il concetto di legge naturale è un concetto costruito.
Questa costruzione però, stiamo attenti, non è “invenzione”, perché nelle scienze naturali abbiamo
sviluppato un metodo che massimizza la plausibilità delle affermazioni. Se uno dicesse di aver visto
Gesù io gli chiederei come ha fatto a accorgersi che era proprio Gesù e se mi rispondesse che lo
sentiva non potrei che chiedergli di darmi una prova evidente di quello che sostiene, prova che in
scienza è necessaria per giustificare ogni affermazione. La scienza però non ha niente a che fare con la verità, bensì con gradi di plausibilità.
Nessun fisico che conosco direbbe che la descrizione del mondo della fisica è identica alla realtà.
Nessun fisico può spiegare il perché della causalità, nessun fisico può spiegare il perché della
gravitazione. Come si può dire che la fisica è la realtà se la base della fisica non è nota. Nessuno sa
se questo mondo è esteso, nessuno sa se la luce viaggia; non si capisce come la luce immateriale
abbia una velocità, seppur grande; ci sono i paradossi di Einstein per cui la velocità della luce non è
additiva. Probabilmente non esiste la velocità, soltanto quando noi misuriamo ci sembra che esista.
Nessuno può spiegare se la luce è corpuscolare o è un onda. Certi esperimenti presuppongono sia
un'onda, altri che siano corpuscoli. Questa non è verità. Questa non è la realtà.
- Esiste soltanto il mondo delle persone: konsensuelle Bereichs...
Sì, certo. Il mondo consensuale ci dice che talvolta sono corpuscoli talvolta onde. A volte ci dice le
luce viaggia, che ha una velocità. Dall'altra parte ci sono i paradossi di Einstein, la meccanica
quantistica è piena di paradossi. La realtà è piena di paradossi.
24/11/2013
Change management, part.03 | Eccesso di Fiducia nelle nuove organizzazioni evolutive aziendali: Overconfidence, Psicologia dell’Autodifesa e Teoria della Autoaffermazione
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Change management, part. 03 a cura di V. Dublino
SUL CONFLITTO PER ECCESSO DI FIDUCIA NELLE NUOVE ORGANIZZAZIONI EVOLUTIVE AZIENDALI: Overconfidence, Psicologia dell’Auto-difesa e Teoria dell’Auto-affermazione [*] [**]
Overconfidence, Psicologia dell’Auto-difesa e Teoria dell’Auto-affermazione [*] [**]
Gli studiosi ci sollecitano ad immaginare :“un mondo in cui le persone non abbiano fiducia.
In questo mondo difficilmente saremmo in grado di affrontare ogni nuovo giorno, lottare e trovare il coraggio di mostrare il nostro lavoro ai nostri superiori o fare domanda per un lavoro; i chirurghi si frustrerebbero nel dubbio degli esito dei loro futuri interventi; i militari esiterebbero nei momenti chiave in cui risolutezza nelle decisioni è essenziale; i politici sarebbero inabili nel perseguire la loro visione e non sarebbero in grado di difendere le proprie posizioni contro la costante pioggia di critiche personali ed intellettuali.”
La fiducia è un’essenza vitale per la conduzione di tutte quelle nostre attività che svolgiamo in maniera scontata durante la nostra vita quotidiana. Ma è anche ritenuta un elemento di grande importanza ogni qual volta proviamo a spiegare dei risultati che sono fuori dal comune.
La fiducia è ampiamente considerato un ingrediente, quasi magico, nell’ottenere successo nello sport, nell’intrattenimento, nel business, sui mercati azionari, nei combattimenti ed in molti altri domini della socialità: potrebbero essere saliti alla ribalta Donald Trump , Muhammad Ali e il generale Patton, senza essere dominati dalla loro frizzante fiducia? In nessun altro modo .
Ma allo stesso tempo, l"eccesso di fiducia" può essere pericoloso!
Come il fuoco , può essere estremamente utile se usato in modo e quantità controllate. Ma una eccesso di fiducia (in inglese "Overconfidence") può facilmente diventare un incendio fuori controllo ed essere causa di costosi errori decisionali alla base di fallimenti politici e di guerre .
Ad esempio, l’Overconfidence è stata accusata di essere la causa di una serie di gravi catastrofi finanziarie come lo scoppio della "bolla dotcom" negli anni 90 , il crack delle banche del 2008 , del cambiamento climatico in corso: "il non accadrà a me" impera .
Questi eventi non sono piccoli incidenti di percorso, nella linea temporale dello sforzo evolutivo umano.
Storici e politologi hanno imputato alla eccessiva fiducia tutta una serie di clamorosi fiaschi, dalla Prima Guerra Mondiale al Vietnam all'Iraq .
Restiamo sorpresi da problemi ricorrenti, dovuti all'eccesso di fiducia, e ce ne chiediamo "perché le persone non imparano dai loro errori?"
Come suggerisce l'archetipo auto-scettico Woody Allen:
<<La fiducia è quello che hai prima di capire il problema >>.
Tuttavia il ricorrente ripetersi di fenomeni di Overconfidence è un argomento che sorprende gli psicologi, ed è diventato oggetto di studio.
Solitamente, molte persone, mentalmente sane, tendono ad avere le cosiddette "illusioni positive": ciò avviene relativamente alle nostre capacità , al nostro controllo sugli eventi, alla nostra vulnerabilità ai rischi.
Numerosi sono gli studi che dimostrano come le persone tendano a sopravvalutare la loro intelligenza: sopravalutiamo spesso la nostra attrattiva sugli altri, come le nostre abilità.
Spesso abbiamo anche la tendenza ad assumere che siamo noi ad avere la migliore morale, essere in buona salute e godere di maggiori capacità di leadership, rispetto agli altri.
Un sondaggio, su un milione di studenti di scuole superiori, ha evidenziato che il 70% di loro pensa di essere un leader al di sopra della media, solo il 2% classifica se stesso sotto la media .
In un altro studio, il 94% dei professori universitari ha affermato che la loro ricerca era al di sopra della media.
Tutti crediamo che vivremo più a lungo rispetto agli altri, che non saremo mai vittime di calamità comuni - come un incidente stradale, della criminalità , di un terremoto o di una grave malattia.
Come i bambini del Lago Wobegon di Garrison Keillor, crediamo di essere tutti al di sopra della media!
Le "Illusioni positive" sembrano essere sostenute da molteplici forme di pregiudizio cognitivo e motivazionali, diverse, ma tutte convergenti nell'aumentare la fiducia nella gente .
Questo fenomeno è pericoloso, perché è la causa per la quale le persone sono sempre più propense a pensare che siano meglio degli altri, il che rende più probabile la propensione verso l’aggressività, il conflitto e persino indurre alla guerra.
Come sostiene Daniel Kahneman: <<noi tendiamo a percepire gli altri come fossero più minacciosi di quanto in realtà siano: esiste una linea di base che ha influenzato molti dei giudizi che sono stati identificati negli ultimi 15 anni, che hanno guidato le decisioni prese sotto una presunta minaccia verso quella tendenza sostenuta dalla linea dei falchi.>>
Già in passato, in molti studi che hanno messo sotto analisi casi bellici della storia, è stato teorizzato che l’eccesso di fiducia è stata una delle cause principali di casi di aggressione di un popolo verso un altro; oggi l'analisi dei risultati quantitativi e sperimentali di studi più approfonditi (come ad esempio quelli relativi agli esperimenti compiuti durante i "wargames") ci forniscono le prove del nesso esistente.
Uno studio del 2007 suggerisce che la fiducia e il conservatorismo sono associati con l'aggressività nelle crisi decisionali, e dunque gli alti livelli di fiducia che caratterizzano alcuni decision-makers ci dovrebbero plausibilmente far prevedere l'adozione di politiche aggressive nelle preferenze decisionali di crisi, anche nel mondo reale.
Lo studio dimostra che "la Sicurezza di sé, a quanto pare, è un potente fattore che esercita un'influenza anche al di là dell’ideologia politica." [**]
Fowler e Johnson ci dicono: “la fiducia sembra essere pertanto un grande puzzle composto da tessere che da un lato vanno a rappresentare una diffusa e potente caratteristica della cognizione umana, ma che, d'altra parte, sembra essere causa di valutazioni errate in grado di scatenare gravi catastrofi .
Ciò sembra avere poco senso. Perché questa propensione dell’Uomo ad illudersi con false credenze sopravvive in competizione con ciò che è sostenuto dai fatti?
Come si è evoluta questa contraddizione?
Una risposta potrebbe essere suggerita appunto dall'Overconfidence: questa può essere vantaggiosa perché aumenta l'ambizione, la determinazione e la persistenza nell’assolvere molti compiti, anche se il prezzo da pagare si rivela nella possibilità di incorrere in disastri occasionali; come accade ad esempio ai bravi giocatori di poker che, molto spesso, devono al bluff la forza della loro mano di gioco se vogliono vincerla, allo stesso modo gli individui troppo sicuri di sé possono essere in grado di superare i rivali se credono in se stessi abbastanza per andare avanti, quando invece gli altri vi darebbero un taglio."
L'idea che l’Overconfidence sia vantaggiosa è interessante.
Ma dietro un'idea, si cela sempre una valida ipotesi alternativa.
Mentre l’overconfidenza ci potrebbe effettivamente incoraggiare a puntare in alto, è comunque possibile incorrere in un errore decisionale.
Di conseguenza, molti economisti sostengono che la strategia vincente dovrebbe essere quella che vede il mondo esattamente così com'è: "l’Uomo, dunque, freddamente calcolatore delle sue capacità dovrebbe raccogliere la sfida e combattere solo se è sicuro di vincere. […] Come possiamo decidere tra queste due visioni alternative tra loro?
Una visione in prospettiva evoluzionistica qui torna utile. Perché ci costringe a pensare al come queste strategie alternative avrebbero funzionato in diretta concorrenza l’una con l'altra nel concetto Darwiniano di selezione naturale.
Immaginiamo un mondo in cui ci sono tre tipi di persone che la pensano come:
- un’economista (che è imparziale nella sua valutazione);
- Muhammad Ali (che è un’ overconfidente, tanto sicuro di sé da pensare: "okay , sono il più grande , sono certo di vincere!";
- ... e Woody Allen che è un archetipo di underconfident ."
Se questi tre tipi di personalità vanno in competizione per nutrirsi, Woody Allen rifuggirà dai conflitti perché tenderà ad evitare costosi scontri (il che significa che tenderà a morire di fame); l’economista avrà una migliore idea di quale conflitto potrebbe vincere, ma sarà comunque magro in quanto a volte lascerebbe del cibo sulla tavola che avrebbe potuto conquistare; al contrario Muhammad Ali raramente rifugerebbe dal lottare, e quindi avrebbe sempre un colpo da infierire per mangiare e sopravvivere; finché il valore del cibo da conquistare sarà sufficientemente maggiore del costo del conflitto, Muhammad Ali riuscirà a vincere. Dunque? Un grado di eccessiva fiducia sembra essere, almeno apparentemente, mediamente utile, anche se potrebbe provocare disastri occasionali; ma ciò è valido finché il premio in palio supererà sufficientemente il costo del competere per conquistarlo: la fortuna aiuta gli audaci!
Tuttavia, nonostante un certo margine di eccesso di fiducia sia ottimale: non assegnare limiti all’overconfidenza può essere dannoso.
La volontà, cieca, di combattere a tutti i costi, soprattutto quando si scontrano due strategie con obiettivi simili, può portare ad un conflitto di tali proporzioni che alcun guadagno ne avrà valsa la pena.
L'attacco di Napoleone a Waterloo nel 1815, come le pratiche speculative sub-prime che hanno portato al tracollo delle banche durante il crack finanziario del 2008, ci fa capire finalmente che ci si spinge oltre i limiti della fiducia consentita, troppo. […], ma alla gente di solito piace competere perché il premio è sempre apprezzato.
In un mondo in cui la tecnologia cambia tumultuosamente, le variabili di probabilità del gioco, e un errore di calcolo basato sulla non completa conoscenza di queste variabili, ci fa rischiare di perdere di vista i costi da subire nel caso di una decisione sbagliata, che potrebbe significare il collasso del sistema bancario o lo scatenamento di un fungo atomico globale; la strategia underconfident di Allen potrebbe essere più adatta? […] Il vero problema sta dunque nel fatto che non è mai evidente quanta quantità di fiducia sia quella giusta.
Nella vita , in amore, nella finanza e in politica , c'è una linea sottile tra il perdere quando avremmo pensato di poter vincere, procurandoci gravi ustioni per aver usato troppo fuoco, cioè abusando dell’ Overconfidence!"
Il nostro cervello ha sviluppato nel corso di milioni di anni (durante i quali abbiamo vissuto in piccoli gruppi parentali di cacciatori-raccoglitori) la predisposizione all’Overconfidence per sopravvivere ed evolverci.
E ' solo negli ultimi 10.000 anni che abbiamo cominciato a vivere con estranei nelle grandi società urbane. L’Overconfidence è una potente e pervasiva eredità evolutiva che continua a dominare il nostro giudizi e i nostri processi decisionali, anche in contesti politici, sociali e tecnologici complessi, quali quelli in cui oggi viviamo. Tuttavia sembra che tale fenomeno sia in grado di portare vantaggi con sempre minore probabilità, piuttosto sembra aumentare semplicemente la probabilità di essere causa di disastri.
Possiamo affermare che l’overconfidence è probabilmente utile per aiutarci in quei contesti "evolutivamente salienti " che sono simili alle sfide di adattamento del nostro passato […] ma è meno probabile che ci possa aiutare in "nuovi contesti evolutivi"
L’abuso di Overconfidenza oggi diventa una strategia sempre più pericolosa, senza dotarsi delle necessarie competenze grazie ad una formazione continua.
Il mondo moderno è molto diverso da quello in cui siamo evoluti. In cui le nostre decisioni e i nostri comportamenti si adattavano tramite selezione naturale.
Le grandi decisioni di oggi dipendono da molteplici e complesse "burocrazie variabili"che interagiscono tra numerosi stakeholders.
In questi nuovi contesti, processi di pianificazione basati su valutazioni precise e scrupolose, elaborate sulla scorta di reali competenze appaiono noiosi, mentre invece diventa fondamentale quando si aspira a perseguire obiettivi di successo, in condizioni ambientali caratterizzati da continue novità evolutive, cambiamenti per i quali non siamo stati progettati.
Particolare attenzione sarebbe da dedicare al fenomeno dell’overconfidenza abusata in campo politico ed economico. In questi campi sta capitando sempre più spesso che le probabilità che alcune decisioni siano fuori luogo, avendo ripercussioni negative per milioni di persone.
Potremmo non essere in grado di eliminare questa naturale "distorsione" presente nei nostri processi decisionali, perché è inscritta nel nostro DNA, ma diventa sempre più cruciale che almeno assumiamo consapevolezza del problema, con lo scopo di resettare i nostri istituti decisionali, se vogliamo cercare di evitare "catastrofi autoimposte".
Vengono osservate situazioni in cui le persone valutano la probabilità che accada un evento in base alla facilità con cui si possano ricordare eventi simili. Ad esempio, una persona trovandosi a dover valutare il rischio di un infarto tra le persone di età media, tende a richiamare alla mente tutte le situazioni simili tra persone di sua diretta conoscenza, più che a valutare le statistiche oggettive.
In altre parole gli individui, quando si trovano in una situazione di incertezza, tendono a colmare le “lacune percettive” cercando parallelismi fra quelle caratteristiche della situazione che stanno vivendo e le caratteristiche di situazioni già vissute.
In questo modo, questi soggetti ritengono di poter sfruttare informazioni di cui solo loro sono in possesso (cioè che non sono a disposizione di tutti), sovrastimandole. Se poi accade che le decisioni che, loro, hanno preso sulla base di tali informazioni (acquisite attraverso le loro esperienze) trovano conferma nel verificarsi degli eventi che si succedono, questi soggetti allora accrescono la propria autostima attribuendo l'esito positivo della propria decisione alle proprie "infallibili" capacità.
Se, al contrario, il verificarsi dell’evento dovesse smentire le proprie convinzioni, gli individui sostengono che l’evento era totalmente imprevedibile, sottostimando il proprio errore.
L’Uomo Overconfidente, dunque, quando assume la veste di "decision-maker", può rivelarsi una persona che sovrastima la precisione dei segnali forniti dalle informazione personali, e che invece non attribuisce grande peso alla informazione pubblica.
"[…] il ragionamento evolutivo e la Conoscenza del problema ci suggeriscono i modi per evitare le situazioni più pericolose in cui l’overconfidenza è probabile che insorga; in primo luogo, potendo fare in modo che l’overconfidenza si alimenti in ambienti in cui un atteggiamento rampante aiuti la prestazione, (come ad esempio nello sport) ma sia soppresso in ambienti in cui la valutazione accurata è più importante dell’impulso istintivo volontario. In secondo luogo , studiando i contesti di fondo in cui il fenomeno di overconfidenza si alimenta o si limita.”
Per esempio, si nota che siamo esposti all’overconfidenza solo quando non siamo sicuri di essere in grado di vincere una sfida; in questo caso entra in gioco la "Teoria dell’Auto-Affermazione" (ben definita nell’ultimo decennio) che sembra poter spiegare quali ne siano le motivazioni: sostanzialmente dovute ad una premessa di base "le persone tendono a difendere la propria integrità!"
Gli esperti ci suggeriscono: “dovremmo incoraggiare quanto più possibile la condivisione e la circolazione delle informazioni in un momento di crisi in cui l’overconfidenza potrebbe farci prendere le decisioni sbagliate; quanto più l’interazione che abbiamo con i nostri avversari è supportata da informazioni utili (all’accuratezza dell’analisi) più è probabile che si giunga a valutazioni condivise sui punti di forza e di debolezza presenti da ciascun lato delle parti in causa.
E' esattamente il ragionamento al quale si sono imposti di sottostare l'URSS e gli Stati Uniti, acconsentendo alle reciproche ispezioni dei loro impianti di armi nucleari, al termine di un lungo periodo storico (la guerra fredda) durante il quale l"approccio overconfidente", presente sia nell’una che nell’altra parte, è sembrato voler prevalere in alcuni momenti.
Col tempo si è capito, infatti che i wargames (strumenti usati da ambedue le due parti per simulare scenari bellici impostati su modelli matematici) non erano la via da seguire in maniera pedissequa. Fortunatamente, si è compreso che le variabili in gioco nel mondo reale sono influenzabili da aspetti sociali e psico-comportamentali che non sottostanno alle rigide regole della matematica, dunque le variabili avrebbero potuto interagire in modo diverso sotto influenze meccanicamente imponderabili.
E' ragionando su queste riflessioni che risulta evidente come gli studi sugli effetti dell’overconfidenza possano assumere un ruolo molto importante anche nelle scienze economiche e in quelle discipline che studiano i fenomeni del management delle organizzazioni.
Recentemente è stato avviato lo studio del fenomeno dell’overconfidenza allo scopo di capire quanto questa possa influenzare i decision-makers aziendali, o politici.
Gli studi stanno dimostrando che, mediamente, il "top management" attribuisce troppa importanza alla "fiducia", una grande percentuale di manager mantiene in considerazione troppo pesantemente la propria autostima, al contrario facendo poco affidamento sui, cosiddetti, segnali pubblici.
Se ciò è vero, allora le conseguenti previsioni di questi manager evidenzierebbero una propensione verso maggiori tassi di errore che influenzano le loro decisioni. Si sta scoprendo, inoltre, che l’errore di previsione nel management è strettamente correlato con il suo successo ottenuto in passato come manager.
Le decisioni prese da questi manager, troppo sicuri di sé, dimostrano di essere state prese con un tasso di divergenza tanto maggiore delle considerazioni degli analisti quanto queste analisi che gli vengono sottoposte in aiuto si rivelano molto accurate.
Per concludere, sarà mai che la conoscenza approfondita di questi studi possa essere significativamente importante per capire le cause alla base di tanti disastri finanziari, economici o di gestione politica ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni?
Forse con i tempi che corrono l'Eccesso di fiducia non dovrebbe essere bilanciato da una buona dose di "Paranoia Costruttiva"?
Le nostre considerazioni circa le influenze dell’Overconfidence nel management aziendale saranno trattate nella seconda parte di questo post.
Gli studiosi ci sollecitano ad immaginare :“un mondo in cui le persone non abbiano fiducia.
In questo mondo difficilmente saremmo in grado di affrontare ogni nuovo giorno, lottare e trovare il coraggio di mostrare il nostro lavoro ai nostri superiori o fare domanda per un lavoro; i chirurghi si frustrerebbero nel dubbio degli esito dei loro futuri interventi; i militari esiterebbero nei momenti chiave in cui risolutezza nelle decisioni è essenziale; i politici sarebbero inabili nel perseguire la loro visione e non sarebbero in grado di difendere le proprie posizioni contro la costante pioggia di critiche personali ed intellettuali.”
La fiducia è un’essenza vitale per la conduzione di tutte quelle nostre attività che svolgiamo in maniera scontata durante la nostra vita quotidiana. Ma è anche ritenuta un elemento di grande importanza ogni qual volta proviamo a spiegare dei risultati che sono fuori dal comune.
La fiducia è ampiamente considerato un ingrediente, quasi magico, nell’ottenere successo nello sport, nell’intrattenimento, nel business, sui mercati azionari, nei combattimenti ed in molti altri domini della socialità: potrebbero essere saliti alla ribalta Donald Trump , Muhammad Ali e il generale Patton, senza essere dominati dalla loro frizzante fiducia? In nessun altro modo .
Ma allo stesso tempo, l"eccesso di fiducia" può essere pericoloso!
Come il fuoco , può essere estremamente utile se usato in modo e quantità controllate. Ma una eccesso di fiducia (in inglese "Overconfidence") può facilmente diventare un incendio fuori controllo ed essere causa di costosi errori decisionali alla base di fallimenti politici e di guerre .
Ad esempio, l’Overconfidence è stata accusata di essere la causa di una serie di gravi catastrofi finanziarie come lo scoppio della "bolla dotcom" negli anni 90 , il crack delle banche del 2008 , del cambiamento climatico in corso: "il non accadrà a me" impera .
Questi eventi non sono piccoli incidenti di percorso, nella linea temporale dello sforzo evolutivo umano.
Storici e politologi hanno imputato alla eccessiva fiducia tutta una serie di clamorosi fiaschi, dalla Prima Guerra Mondiale al Vietnam all'Iraq .
Restiamo sorpresi da problemi ricorrenti, dovuti all'eccesso di fiducia, e ce ne chiediamo "perché le persone non imparano dai loro errori?"
Come suggerisce l'archetipo auto-scettico Woody Allen:
<<La fiducia è quello che hai prima di capire il problema >>.
Tuttavia il ricorrente ripetersi di fenomeni di Overconfidence è un argomento che sorprende gli psicologi, ed è diventato oggetto di studio.
Solitamente, molte persone, mentalmente sane, tendono ad avere le cosiddette "illusioni positive": ciò avviene relativamente alle nostre capacità , al nostro controllo sugli eventi, alla nostra vulnerabilità ai rischi.
Numerosi sono gli studi che dimostrano come le persone tendano a sopravvalutare la loro intelligenza: sopravalutiamo spesso la nostra attrattiva sugli altri, come le nostre abilità.
Spesso abbiamo anche la tendenza ad assumere che siamo noi ad avere la migliore morale, essere in buona salute e godere di maggiori capacità di leadership, rispetto agli altri.
Un sondaggio, su un milione di studenti di scuole superiori, ha evidenziato che il 70% di loro pensa di essere un leader al di sopra della media, solo il 2% classifica se stesso sotto la media .
In un altro studio, il 94% dei professori universitari ha affermato che la loro ricerca era al di sopra della media.
Tutti crediamo che vivremo più a lungo rispetto agli altri, che non saremo mai vittime di calamità comuni - come un incidente stradale, della criminalità , di un terremoto o di una grave malattia.
Come i bambini del Lago Wobegon di Garrison Keillor, crediamo di essere tutti al di sopra della media!
Le "Illusioni positive" sembrano essere sostenute da molteplici forme di pregiudizio cognitivo e motivazionali, diverse, ma tutte convergenti nell'aumentare la fiducia nella gente .
Questo fenomeno è pericoloso, perché è la causa per la quale le persone sono sempre più propense a pensare che siano meglio degli altri, il che rende più probabile la propensione verso l’aggressività, il conflitto e persino indurre alla guerra.
Come sostiene Daniel Kahneman: <<noi tendiamo a percepire gli altri come fossero più minacciosi di quanto in realtà siano: esiste una linea di base che ha influenzato molti dei giudizi che sono stati identificati negli ultimi 15 anni, che hanno guidato le decisioni prese sotto una presunta minaccia verso quella tendenza sostenuta dalla linea dei falchi.>>
Già in passato, in molti studi che hanno messo sotto analisi casi bellici della storia, è stato teorizzato che l’eccesso di fiducia è stata una delle cause principali di casi di aggressione di un popolo verso un altro; oggi l'analisi dei risultati quantitativi e sperimentali di studi più approfonditi (come ad esempio quelli relativi agli esperimenti compiuti durante i "wargames") ci forniscono le prove del nesso esistente.
Uno studio del 2007 suggerisce che la fiducia e il conservatorismo sono associati con l'aggressività nelle crisi decisionali, e dunque gli alti livelli di fiducia che caratterizzano alcuni decision-makers ci dovrebbero plausibilmente far prevedere l'adozione di politiche aggressive nelle preferenze decisionali di crisi, anche nel mondo reale.
Lo studio dimostra che "la Sicurezza di sé, a quanto pare, è un potente fattore che esercita un'influenza anche al di là dell’ideologia politica." [**]
Fowler e Johnson ci dicono: “la fiducia sembra essere pertanto un grande puzzle composto da tessere che da un lato vanno a rappresentare una diffusa e potente caratteristica della cognizione umana, ma che, d'altra parte, sembra essere causa di valutazioni errate in grado di scatenare gravi catastrofi .
Ciò sembra avere poco senso. Perché questa propensione dell’Uomo ad illudersi con false credenze sopravvive in competizione con ciò che è sostenuto dai fatti?
Come si è evoluta questa contraddizione?
Una risposta potrebbe essere suggerita appunto dall'Overconfidence: questa può essere vantaggiosa perché aumenta l'ambizione, la determinazione e la persistenza nell’assolvere molti compiti, anche se il prezzo da pagare si rivela nella possibilità di incorrere in disastri occasionali; come accade ad esempio ai bravi giocatori di poker che, molto spesso, devono al bluff la forza della loro mano di gioco se vogliono vincerla, allo stesso modo gli individui troppo sicuri di sé possono essere in grado di superare i rivali se credono in se stessi abbastanza per andare avanti, quando invece gli altri vi darebbero un taglio."
L'idea che l’Overconfidence sia vantaggiosa è interessante.
Ma dietro un'idea, si cela sempre una valida ipotesi alternativa.
Mentre l’overconfidenza ci potrebbe effettivamente incoraggiare a puntare in alto, è comunque possibile incorrere in un errore decisionale.
Di conseguenza, molti economisti sostengono che la strategia vincente dovrebbe essere quella che vede il mondo esattamente così com'è: "l’Uomo, dunque, freddamente calcolatore delle sue capacità dovrebbe raccogliere la sfida e combattere solo se è sicuro di vincere. […] Come possiamo decidere tra queste due visioni alternative tra loro?
Una visione in prospettiva evoluzionistica qui torna utile. Perché ci costringe a pensare al come queste strategie alternative avrebbero funzionato in diretta concorrenza l’una con l'altra nel concetto Darwiniano di selezione naturale.
Immaginiamo un mondo in cui ci sono tre tipi di persone che la pensano come:
- un’economista (che è imparziale nella sua valutazione);
- Muhammad Ali (che è un’ overconfidente, tanto sicuro di sé da pensare: "okay , sono il più grande , sono certo di vincere!";
- ... e Woody Allen che è un archetipo di underconfident ."
Se questi tre tipi di personalità vanno in competizione per nutrirsi, Woody Allen rifuggirà dai conflitti perché tenderà ad evitare costosi scontri (il che significa che tenderà a morire di fame); l’economista avrà una migliore idea di quale conflitto potrebbe vincere, ma sarà comunque magro in quanto a volte lascerebbe del cibo sulla tavola che avrebbe potuto conquistare; al contrario Muhammad Ali raramente rifugerebbe dal lottare, e quindi avrebbe sempre un colpo da infierire per mangiare e sopravvivere; finché il valore del cibo da conquistare sarà sufficientemente maggiore del costo del conflitto, Muhammad Ali riuscirà a vincere. Dunque? Un grado di eccessiva fiducia sembra essere, almeno apparentemente, mediamente utile, anche se potrebbe provocare disastri occasionali; ma ciò è valido finché il premio in palio supererà sufficientemente il costo del competere per conquistarlo: la fortuna aiuta gli audaci!
Tuttavia, nonostante un certo margine di eccesso di fiducia sia ottimale: non assegnare limiti all’overconfidenza può essere dannoso.
La volontà, cieca, di combattere a tutti i costi, soprattutto quando si scontrano due strategie con obiettivi simili, può portare ad un conflitto di tali proporzioni che alcun guadagno ne avrà valsa la pena.
L'attacco di Napoleone a Waterloo nel 1815, come le pratiche speculative sub-prime che hanno portato al tracollo delle banche durante il crack finanziario del 2008, ci fa capire finalmente che ci si spinge oltre i limiti della fiducia consentita, troppo. […], ma alla gente di solito piace competere perché il premio è sempre apprezzato.
In un mondo in cui la tecnologia cambia tumultuosamente, le variabili di probabilità del gioco, e un errore di calcolo basato sulla non completa conoscenza di queste variabili, ci fa rischiare di perdere di vista i costi da subire nel caso di una decisione sbagliata, che potrebbe significare il collasso del sistema bancario o lo scatenamento di un fungo atomico globale; la strategia underconfident di Allen potrebbe essere più adatta? […] Il vero problema sta dunque nel fatto che non è mai evidente quanta quantità di fiducia sia quella giusta.
Nella vita , in amore, nella finanza e in politica , c'è una linea sottile tra il perdere quando avremmo pensato di poter vincere, procurandoci gravi ustioni per aver usato troppo fuoco, cioè abusando dell’ Overconfidence!"
Il nostro cervello ha sviluppato nel corso di milioni di anni (durante i quali abbiamo vissuto in piccoli gruppi parentali di cacciatori-raccoglitori) la predisposizione all’Overconfidence per sopravvivere ed evolverci.
E ' solo negli ultimi 10.000 anni che abbiamo cominciato a vivere con estranei nelle grandi società urbane. L’Overconfidence è una potente e pervasiva eredità evolutiva che continua a dominare il nostro giudizi e i nostri processi decisionali, anche in contesti politici, sociali e tecnologici complessi, quali quelli in cui oggi viviamo. Tuttavia sembra che tale fenomeno sia in grado di portare vantaggi con sempre minore probabilità, piuttosto sembra aumentare semplicemente la probabilità di essere causa di disastri.
Possiamo affermare che l’overconfidence è probabilmente utile per aiutarci in quei contesti "evolutivamente salienti " che sono simili alle sfide di adattamento del nostro passato […] ma è meno probabile che ci possa aiutare in "nuovi contesti evolutivi"
L’abuso di Overconfidenza oggi diventa una strategia sempre più pericolosa, senza dotarsi delle necessarie competenze grazie ad una formazione continua.
Il mondo moderno è molto diverso da quello in cui siamo evoluti. In cui le nostre decisioni e i nostri comportamenti si adattavano tramite selezione naturale.
Le grandi decisioni di oggi dipendono da molteplici e complesse "burocrazie variabili"che interagiscono tra numerosi stakeholders.
In questi nuovi contesti, processi di pianificazione basati su valutazioni precise e scrupolose, elaborate sulla scorta di reali competenze appaiono noiosi, mentre invece diventa fondamentale quando si aspira a perseguire obiettivi di successo, in condizioni ambientali caratterizzati da continue novità evolutive, cambiamenti per i quali non siamo stati progettati.
Particolare attenzione sarebbe da dedicare al fenomeno dell’overconfidenza abusata in campo politico ed economico. In questi campi sta capitando sempre più spesso che le probabilità che alcune decisioni siano fuori luogo, avendo ripercussioni negative per milioni di persone.
Potremmo non essere in grado di eliminare questa naturale "distorsione" presente nei nostri processi decisionali, perché è inscritta nel nostro DNA, ma diventa sempre più cruciale che almeno assumiamo consapevolezza del problema, con lo scopo di resettare i nostri istituti decisionali, se vogliamo cercare di evitare "catastrofi autoimposte".
Vengono osservate situazioni in cui le persone valutano la probabilità che accada un evento in base alla facilità con cui si possano ricordare eventi simili. Ad esempio, una persona trovandosi a dover valutare il rischio di un infarto tra le persone di età media, tende a richiamare alla mente tutte le situazioni simili tra persone di sua diretta conoscenza, più che a valutare le statistiche oggettive.
In altre parole gli individui, quando si trovano in una situazione di incertezza, tendono a colmare le “lacune percettive” cercando parallelismi fra quelle caratteristiche della situazione che stanno vivendo e le caratteristiche di situazioni già vissute.
In questo modo, questi soggetti ritengono di poter sfruttare informazioni di cui solo loro sono in possesso (cioè che non sono a disposizione di tutti), sovrastimandole. Se poi accade che le decisioni che, loro, hanno preso sulla base di tali informazioni (acquisite attraverso le loro esperienze) trovano conferma nel verificarsi degli eventi che si succedono, questi soggetti allora accrescono la propria autostima attribuendo l'esito positivo della propria decisione alle proprie "infallibili" capacità.
Se, al contrario, il verificarsi dell’evento dovesse smentire le proprie convinzioni, gli individui sostengono che l’evento era totalmente imprevedibile, sottostimando il proprio errore.
L’Uomo Overconfidente, dunque, quando assume la veste di "decision-maker", può rivelarsi una persona che sovrastima la precisione dei segnali forniti dalle informazione personali, e che invece non attribuisce grande peso alla informazione pubblica.
"[…] il ragionamento evolutivo e la Conoscenza del problema ci suggeriscono i modi per evitare le situazioni più pericolose in cui l’overconfidenza è probabile che insorga; in primo luogo, potendo fare in modo che l’overconfidenza si alimenti in ambienti in cui un atteggiamento rampante aiuti la prestazione, (come ad esempio nello sport) ma sia soppresso in ambienti in cui la valutazione accurata è più importante dell’impulso istintivo volontario. In secondo luogo , studiando i contesti di fondo in cui il fenomeno di overconfidenza si alimenta o si limita.”
Per esempio, si nota che siamo esposti all’overconfidenza solo quando non siamo sicuri di essere in grado di vincere una sfida; in questo caso entra in gioco la "Teoria dell’Auto-Affermazione" (ben definita nell’ultimo decennio) che sembra poter spiegare quali ne siano le motivazioni: sostanzialmente dovute ad una premessa di base "le persone tendono a difendere la propria integrità!"
Gli esperti ci suggeriscono: “dovremmo incoraggiare quanto più possibile la condivisione e la circolazione delle informazioni in un momento di crisi in cui l’overconfidenza potrebbe farci prendere le decisioni sbagliate; quanto più l’interazione che abbiamo con i nostri avversari è supportata da informazioni utili (all’accuratezza dell’analisi) più è probabile che si giunga a valutazioni condivise sui punti di forza e di debolezza presenti da ciascun lato delle parti in causa.
E' esattamente il ragionamento al quale si sono imposti di sottostare l'URSS e gli Stati Uniti, acconsentendo alle reciproche ispezioni dei loro impianti di armi nucleari, al termine di un lungo periodo storico (la guerra fredda) durante il quale l"approccio overconfidente", presente sia nell’una che nell’altra parte, è sembrato voler prevalere in alcuni momenti.
Col tempo si è capito, infatti che i wargames (strumenti usati da ambedue le due parti per simulare scenari bellici impostati su modelli matematici) non erano la via da seguire in maniera pedissequa. Fortunatamente, si è compreso che le variabili in gioco nel mondo reale sono influenzabili da aspetti sociali e psico-comportamentali che non sottostanno alle rigide regole della matematica, dunque le variabili avrebbero potuto interagire in modo diverso sotto influenze meccanicamente imponderabili.
E' ragionando su queste riflessioni che risulta evidente come gli studi sugli effetti dell’overconfidenza possano assumere un ruolo molto importante anche nelle scienze economiche e in quelle discipline che studiano i fenomeni del management delle organizzazioni.
Recentemente è stato avviato lo studio del fenomeno dell’overconfidenza allo scopo di capire quanto questa possa influenzare i decision-makers aziendali, o politici.
Gli studi stanno dimostrando che, mediamente, il "top management" attribuisce troppa importanza alla "fiducia", una grande percentuale di manager mantiene in considerazione troppo pesantemente la propria autostima, al contrario facendo poco affidamento sui, cosiddetti, segnali pubblici.
Se ciò è vero, allora le conseguenti previsioni di questi manager evidenzierebbero una propensione verso maggiori tassi di errore che influenzano le loro decisioni. Si sta scoprendo, inoltre, che l’errore di previsione nel management è strettamente correlato con il suo successo ottenuto in passato come manager.
Le decisioni prese da questi manager, troppo sicuri di sé, dimostrano di essere state prese con un tasso di divergenza tanto maggiore delle considerazioni degli analisti quanto queste analisi che gli vengono sottoposte in aiuto si rivelano molto accurate.
Per concludere, sarà mai che la conoscenza approfondita di questi studi possa essere significativamente importante per capire le cause alla base di tanti disastri finanziari, economici o di gestione politica ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni?
Forse con i tempi che corrono l'Eccesso di fiducia non dovrebbe essere bilanciato da una buona dose di "Paranoia Costruttiva"?
Le nostre considerazioni circa le influenze dell’Overconfidence nel management aziendale saranno trattate nella seconda parte di questo post.
[*] Per introdurre la conoscenza di quest’argomento abbiamo selezionato un articolo pubblicato, nel 2011, da “Seed” di James Fowler [1] e Dominic Johnson [2].
[**} from: “Humans are Overconfident Creatures …” di J. Fowler & D. Johnson, traduzione ed adattamento di V. Dublino
[1] James Fowler, professore di Genetica Medica e Scienze Politiche @ University of California, San Diego
[2] Dominic Johnson, professore in Biologia Evolutiva e Scienze Politiche @ Università di Edinburgo.
Daniel Kahneman, psicologo cognitivo, premio Nobel per l’economia nel 2002 «per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d'incertezza»
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Neuroesthetic
Is it legitimate to refer to as Empathy in the Arts?
di Vittorio Dublino
Is it legitimate to refer to as Empathy in the Arts?
di Vittorio Dublino
Neuroesthetic is an area of recent scientific research, which emerges from premises founded on the study of the disciplines which descend from the region of interest of Neurosciences and Cognitive Sciences. These researches study how our neurocognitive system can analyze perceptive stimuli connected to Arts, and aesthetics in general, trying to supply analytic tools useful to comprehend creative processes which are either connected to the production and the fruition of Artworks. Essentially, as said by the scientist Semir Zeki, the brain “perceives” the world through senses and elaborates in two macro-areas the esthetics, one subjective and the other objective, resolving as a consequence its concept of “beautiful” and “homely”, assuming its reality as the result of the elaboration produced by the interaction between its “cognitive cortex” (influenced and conditioned by the cultural context and the environment where it has matured its own experiences) and its “emotional paleo-brain” in which we find the aforesaid biologic parameters. The studies of the neuro-anatomical and neuro-physical aspects conducted by some scientists refer to the neuroaesthetics research itself, such as the ones published by Antonio Damasio, Gerald Edelman and Vilayanur Ramachandran . These studies are conducted with the aim of redefining, through modern instruments of survey as the new technologies in diagnostic tools , some of the concepts on which cognitive sciences are based, as for example the relationship between “Emotion and Conscience” and the “Neural Darwinism”, in which “Mind and Body” are recognized as a single “Integrated System” which responds to the solicitations of the external world (perceptions) generating emotions (dictated by “Nucleal Conscience” or “Primary”) which product (after the rational elaboration) are the Feelings (led by the “Extended Conscience” or Secondary), we understand that the perception of the world of the Men happens based on the plans of the interactive and redundant between the different level of Conscience. In recent years, many researches are demonstrating that the emotional mechanisms which are triggered in the moment in which aesthetics of an artwork are admired, are not only determined by the cultural conditioning (and so, liable of evolutions and/or changes in function of the space/time context in which the Observer was born and his individual culture developed) In fact, it has been demonstrated that there are other biological factors, which are generally universal, which influence the aesthetic perception connected to the processes and neurophysical mechanisms which characterize and regulate the aesthetic experiences of Men. The recent researches in the neurophysical field have demonstrated irrefutably the existence of some biological factors, commonly present in each men, capable of determining, at least theoretically, the primary elaboration of the aesthetics perceptions. Factors which could be inborn and, about average, commonly present amongst all of us, factors which represent the principles of the Gestalt of the Human Brain; this also confirms what has been already theorized by Carl G. Jung with his theories about the "Collective Subconscious". If we add, to the aforesaid discoveries, the recent and revolutionary one relative to the presence, in the brain, of a particular category of nerve cells called “Mirror Neurons”, we can state that Science is moving in the direction in which it will assume the new concept of Sociality’s Biology in which the Neurophysical Human system represents the biological base of the social development of men. Can we state that, beyond any cultural and/or cognitive superstructure, there is a main, objective, universal component strongly connected to the “Power of the Image” (or “of the Symbol”)? A component which, as such, makes each Artwork “descending, for a main part of its esthetic connotation, as reason of its incarnated emotional resonance, of the action simulation, sensations and emotion which evokes in each one of us) . Is it legitimate to refer to as Empathy in the Arts, and with whom produces it? Science is demonstrating how this can be possible, and how the fruition of an artwork triggers a dynamically active process in which the observator can melt, empathically, with the artwork and the artist which created it, through an inverse creative approach. | La Neuroestetica è un'area della recente ricerca scientifica che emerge da premesse fondate sullo studio di discipline che rientrano nella sfera di interesse delle Scienze Cognitive e delle Neuroscienze. Tali ricerche si occupano di capire come il nostro sistema neuro-cognitivo possa analizzare gli stimoli percettivi legati all’Arte e, più in generale, all’estetica, cercando di fornire nuovi strumenti per l’analisi oggettiva, utili alla comprensione dei processi creativi, nella produzione, e dei processi d'apprendimento, nella fruizione, delle Opere d’arte. Padre di questa nuova disciplina, è lo scienziato Semir Zeki , il quale afferma che “il Cervello percepisce il mondo attraverso i sensi e ne elabora in due modi l’estetica: in una modalità soggettiva ed in un altra oggettiva, l’Uomo risolve conseguentemente il suo concetto di “bello” o di “brutto” assumendo la sua Realtà come il risultato dell’elaborazione prodotta dall’interazione tra la sua “corteccia cognitiva” (influenzata e condizionata dal contesto culturale e dall’ambiente dove ha maturato le sue esperienze) e il suo “paleo-cervello emozionale” in cui sono inscritti quei parametri biologici di cui sopra”. Alla ricerca neuro-estetica afferiscono anche gli studi sugli aspetti neuroanatomici e neurofisiologici condotti in altri campi da alcuni scienziati; tra questi citiamo le ricerche e le teorie di Antonio Damasio , Gerald Edelman e Vilayanur Ramachandran. Studi condotti allo scopo di ridefinire, attraverso i più moderni strumenti d’indagine, come le nuove tecnologie per la diagnostica, alcuni di quei concetti su cui si fondano le “Scienze cognitive”, come ad esempio il rapporto “Emozione & Coscienza” e il “Darwinismo Neurale” . Concetti in cui “Mente e Corpo” sono riconosciuti come un unico “Sistema integrato”. Un Sistema integrato, che risponde alle sollecitazioni del mondo Esterno (le Percezioni) generando le Emozioni. Nello studio dei processi cognitivi, anche le Emozioni acquisiscono valore cognitivo e, secondo i risultati degli ultimi studi, queste sono dettate dalla “Coscienza Nucleale” (o cosiddetta “Primaria” ). Il prodotto del processo cognitivo che ne risulta, dopo l’elaborazione razionale, sono i Sentimenti. I Sentimenti, dunque, sono dettati dalla “Coscienza Estesa” (o “Secondaria”). Assumendo questi principi alla base delle nuove teorie, andiamo a renderci conto che nell’Uomo, la percezione del Mondo avviene secondo percorsi interattivi e ridondanti tra diversi livelli di Coscienza. Le numerose ricerche avviate in questo campo negli ultimi anni, stanno dimostrando che i meccanismi emozionali che si innescano nel momento in cui si contempla l’estetica di un’opera d’Arte non sono determinati quindi solo da condizionamenti culturali , ma anche da fattori biologici. È stato dimostrato, infatti, che esistono anche fattori biologici che influenzano la percezione estetica. Questi fattori sono correlati a processi ed a meccanismi neurofisiologici che, pertanto, contribuiscono a caratterizzare e regolare le esperienze estetiche dell’Uomo. Le recenti ricerche in campo neurofisiologico stanno andando a dimostrare in maniera inconfutabile che esistono, quindi, fattori biologici, generalmente universali, e qui di presenti in tutti gli Uomini, in grado di determinare, almeno in linea teorica, elaborazioni primarie delle percezioni estetiche. La presenza di tali fattori, che sarebbero innati e comunemente presenti in tutti noi, rispettando i principi della Gestalt del cervello umano, confermerebbe anche quanto già teorizzato in maniera intuitiva da Carl G. Jung e definito con la sue teorie sull’Inconscio Collettivo . Se a queste scoperte aggiungiamo le recentissima e rivoluzionaria scoperta relativa alla presenza nel Cervello di una particolare categoria di cellule nervose chiamate “Neuroni Specchio” , possiamo affermare che la Scienza stia andando nella direzione di assumere il nuovo concetto di “Biologia della Socialità” in cui il sistema Neurofisiologico Umano rappresenta la base biologica dello sviluppo sociale dell’Uomo. Potremmo dunque affermare, che al di là di qualunque sovrastruttura culturale e/o cognitiva, esista una componente oggettiva universale legata al “Potere dell’Immagine” o del Simbolo? Tale componente oggettiva, in quanto tale , renderebbe una qualsiasi genere di Opera d’Arte (dal quadro alla scultura, dalla miniatura calligrafica all’architettura) “derivata, per una sua parte consistente della sua connotazione estetica, in ragione del tipo di risonanza emozionale incarnata, della simulazioni di azioni, sensazioni ed emozioni che evoca in noi”. Si può parlare, quindi, di Empatia nell’Arte e chi con Chi questa la produce? La Scienza ci sta dimostrando come ciò sia possibile e come la fruizione di un’opera d’arte inneschi un processo dinamicamente attivo in cui l’Osservatore può arrivare ad immedesimarsi empaticamente con l’opera e con l’artista che l’ha creata, mediante un approccio creativo inverso. |
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ARTS AS NEURO-COGNITIVE EXPERIENCE
a cura di Vittorio Dublino
a cura di Vittorio Dublino
Nel 2010 a Bruxelles alla Royal Flemish Academy of Belgium for Science and the Arts , si è tenuta una importante conferenza sul tema “Arte e Percezione”. Nel corso della conferenza è emerso che la chiave di successo per lo studio della percezione dell'arte e dell'estetica sta nell’approccio interdisciplinare e nel confronto aperto per la discussione dei diversi punti di vista che intercorrono tra artisti e scienziati, tra gli studiosi di diverse discipline ( i.e. psicologia e storia dell'arte), nella definizione degli approcci alla ricerca (teorico, fenomenologico, empirico) ed in quale campo scientifico in particolare (psico-fisico, neuroscienze, ecc.). Lo scienziato Son Preminger, afferma in suo articolo, “la convinzione generale che si sta facendo strada è che l’Arte è un medium che induce esperienze. Le esperienze artistiche sono un veicolo per trasmettere significati, un modo per offrire motivo di benessere o mezzi di auto-espressione e di comunicazione.” “Ogni opera d'arte induce un’esperienza mentale nell'osservatore, nel partecipante o nello sperimentatore. È’ stato dimostrato che contemplare un'opera d'arte innesca processi percettivi: le arti plastiche innescano processi visivi di basso livello come l'orientamento e il rilevamento dei bordi, così come i processi di livello superiore, come ad esempio il riconoscimento di oggetti e la sua separazione dallo sfondo. Un'esperienza artistica coinvolgerebbe processi cognitivi aggiuntivi come le funzioni esecutive, la memoria, l'emozione, e altri processi cognitivi di alto livello. L'impegno di funzioni esecutive come la memoria di lavoro e l’attenzione, sono le basi di molte esperienze artistiche. Processi intrinseci come la memoria autobiografica, le emozioni e la Teorie sulla Mente possono essere guidati da elementi percettivi e dotare di significati e fornire l'essenza concettuale do un’opera d'arte. Quali combinazioni specifiche di funzioni cognitive siano impegnate dall’osservazione di un’opera d'arte dipendono dalla forma d'arte, dalla particolarità dell’Opera e dall’Esperienza dell'Osservatore. Ad esempio, le forme d'arte classiche come le arti plastiche, la musica e i film, guidano verso la sola esperienza mentale di tipo artistico; mentre le arti interattive, come ad esempio le installazioni interattive o i videogiochi coinvolgono anche le funzioni motorie (cinestesiche) e di controllo comportamentale come parte dell'esperienza indotta. A livello neurobiologico, le esperienze mentali si manifestano con l’attivazione delle corrispondenti reti neurali le cortecce visive e uditive, le reti dell’attenzione e della memoria, le regioni del cervello emotivo, le regioni frontali del cervello, in combinazione tra loro.” “È emerso come gli utenti possano percepire l’arte e l’estetica da un punto di vista psicologico e neuropsicologico e come questa visione possa cambiare lo stesso concetto di arte. Scopo di questa interazione eterogenea è quello di sviluppare abilità critiche, nuove e trasversali, e autogestione didattica, includendo livelli comunicativi virtuali modulati dalla semplice attività cerebrale e dall’attivazione attenzionale del soggetto, potenziando inoltre i livelli di motivazione dell’utente. Questo costrutto si fonda sulle teorie della Embodied Cognition, legata a recenti ricerche nel campo delle scienze cognitive, dei sistemi dinamici, dell’intelligenza artificiale, della robotica e della neurobiologia. Per la embodied cognition l’apprendimento multipercettivo permette di valutare come il sistema motorio e percettivo influenzi la cognizione e potenzi capacità e connettività cerebrali: il corpo modula i processi di apprendimento e aumenta le capacità attenzionali e motivazionali. In un classico contesto di didattica museale il corpo è parzialmente inattivo perché l’utente deve ‘vedere’ senza avere la possibilità di visionare fisicamente lo stimolo. I livelli che vengono attivati in un visitatore museale, in situazioni di elevata ‘competence’ dell’oggetto percepito, sono livelli simbolici e affettivi. In situazioni di elevata competenza artistica, si può presentare, davanti alla visione dello stimolo reale, oggetto di osservazione, uno scompenso affettivo ed emozionale, dovuto alla semplice interazione visiva con l’oggetto. Si tratta, in questo caso, di far parte di un ‘insieme’ gestaltiano5 di relazione con una sorta di oggetto transizionale immaginato di cui, in una situazione museale o legata ai beni culturali, si può avere un’esperienza diretta. Questa sindrome è chiamata Sindrome di Stendhal o sindrome da “hyperkulturemia”. Sintomi simili possono essere elicitati da esperienze culturali estreme, specialmente se vissuti a lungo e rappresentati da esperienze significative per il soggetto, anche a livello religioso, ad esempio nella Jerusalem syndrome che si presenta in siti storici o religiosi”. | In 2010, in the Royal Flemish Academy of Belgium for Science and Arts, Bruxelles, a very important conference on the theme “Arts and Perception” was held. During the conference, the concept that the key to success in the study of perception of arts and aesthetics can be found in the cross-disciplinary approach and in the open confrontation for the discussion of the different points of view among artists and scientists, among the professionals of the various disciplines (e.g. psychology and art history), in the definition of the approaches to research (theoretical, phenomenological, empirical) and in which specific scientific field (psychophysical, neurosciences, etc.) emerged. The scientist Son Preminger states in his article: “the general belief which is gaining its way is that in Arts it is a medium which induces experiences. Artistic experiences are a vehicle to transmit meaning, a way to offer wellness and means of self-expression and communication”. “Each artwork induces a mental experience in the observer, in the participant or in the experimenter. It has been demonstrated that the contemplation of an artwork triggers perceptive processes: plastic arts generate low-level visual processes as orientation and the bearing of borders and corners, and also superior level processes, for example the recognition of objects and their separation from the background. An artistic experience would involve additional cognitive processes such as the executive functions, memory, emotions, and other high end cognitive processes. The usage of executive functions such as work memory and attention are the bases of many artistic experiences. Intrinsic processes such as autobiographical memory, emotions and the Theories of Mind can be driven by perceptive elements and supply meaning and conceptual essence to an artwork. The specific combinations of cognitive functions to use in the observation of artworks depend on the form of art itself, from the peculiarities of the piece and from the experience of the observer. For example, the classical art forms such as plastic arts, music and movies, drive towards the unique artistic mental experience; while interactive arts, such as interactive installations or video games, also involve moving (kinesthetic) and behavioral functions as part of the induced experience. Neurobiologically, mental experiences are shown through the activation of the matching neural networks and visual/auditory cortices, the networks of attention and memory, the cerebral regions of emotion, the frontal regions of the brain, combinating mutually” “We have seen how the users can percept arts and aesthetics from a psychological and neural point of view and how this vision can change the concept of arts itself. The aim of the heterogeneous interaction is to develop new and crosswise critical abilities, and didactic self-management, including virtual communicational levels modulated by the simple cerebral activity and the attention triggering of the subject, also enhancing the levels of motivation of the user. This construct is based on the theories of the Embodied Cognition, connected to the recent researches in the field of cognitive sciences, of dynamic systems, of AIs, of robotics and neurobiology. For the embodied cognition, multi perceptive learning allows to estimate how the motor and perceptive system influences the cognition and enhances mental capacities and connectivity: the body modulates the learning processes and enlarges the attention and motivational capacities. In a traditional context of museum didactics, the body is partially inactive because the user has to “see” without having the possibility of trying physically the stimula. The levels which are activated in a museum visitor, in situations of high end “competence” of the perceived object, are symbolic and affective. In situations of high artistic knowledge, we can see, in front of the real stimulation, an affective and emotional decompensation, caused by the simple visual interaction. In this case, it comes to being part of a relational gestalt ‘ensemble’ with a sort of transition object of which, in a museum (or cultural heritage) situation, there can be a direct experience. This syndrome is called Stendhal Syndrome of ‘hyperkulturemia” syndrome. Similar symptoms can be elicited by extreme cultural experiences, especially if lived over a long period of time and represented by significant experiences for the subject, even on a religious base, for example the Jerusalem Syndrome which can be observed in historical or religious sites”. |
References:
Synesthesia
Towards an increasingly receptive and multisensorial mind
di Vittorio Dublino
Towards an increasingly receptive and multisensorial mind
di Vittorio Dublino
Sinestesia: verso una mente sempre più recettiva e multisensoriale. La Sinestesia è una condizione neurologica in cui la stimolazione di una via sensoriale o cognitiva porta automaticamente verso esperienze involontarie, che confluiscono in un secondo percorso sensoriale o cognitivo. Le persone che riferiscono di avere tali esperienze sono conosciuti come Sinestetici. Lo studio scientifico della Sinestesia ha iniziato a svilupparsi, con uno studio realmente sistematico, solo da poco più di un decennio, grazie allo sviluppo delle tecnologie per la neuroimaging. Con l’utilizzo di tali tecnologie si ha oggi la possibilità di visualizzare le aree in cui si verifica l’attività cerebrale attraverso una “mappa digitale” delle funzioni cerebrali; ciò ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nello studio delle neuroscienze. I ricercatori hanno infatti potuto scoprire che nel cervello di un sinestetico, in risposta a uno stimolo sensoriale, vengono attivati neuroni di diverse aree cerebrali: in seguito ad una percezione proveniente dal mondo esterno, dunque, non si attivano solo quei neuroni specializzati nell’assolvere a quella precisa funzione, che si dovrebbe innescare con quell’ inequivocabile stimolo sensoriale, ma induce anche l’attivazione di quelli localizzati in altre aree, come quella uditiva; stimolo visivo, non interessa solamente i neuroni della corteccia visiva. In questo modo, gli scienziati sono arrivati alla conclusione che, in realtà, in tutti gli esseri umani i neuroni delle diverse regioni cerebrali non “lavorano in maniera isolata”, ma si influenzano, comunicando attraverso una diffusa rete di connessioni. Negli individui Sinestesici accertati, ciò che fa la differenza è la presenza di una rete di connessioni più intricata della media degli individui non sinestetici. Grazie agli studi sulla Sinestesia, pertanto, i neuroscienziati sono giunti a teorizzare che “una corretta comprensione del funzionamento del cervello (e della Mente) non può basarsi su una visione troppo riduzionista”. “L’intero sistema è una grande rete”, spiega David Eagleman, “Non è più sufficiente pensare a singole aree che lavorano in isolamento”. La Sinestesia, quindi, è una condizione neurologica che provoca la “Contaminazione dei Sensi”. Ad esempio, nel caso dell’artista Perry Hall , nei suoi lavori, le forme, i colori e i suoni sono sapientemente miscelati in un’arte “viva” e multisensoriale: in lui uno stimolo visivo (come quello indotto dal paesaggio costiero durante il viaggio in treno) innesca immediatamente anche una risposta di tipo uditivo. E’ stato studiato che, nell’artista, colori e forme producono suoni diversi, ogni musica nella sua mente è contraddistinta da un suo proprio colore. Come spiega la psicologa Darya Zabelina , “la Sinestesia è una dote che sembra essere comune tra gli artisti, con una percentuale che sfiora addirittura il 25%. Nel resto della popolazione il fenomeno della Sinestesia si riscontra più raramente, ma, in effetti, non tutti sono coscienti di esserne in possesso”. Sino a oggi non è stata definita con precisione la causa della Sinestesia; nessun sinestesico, comunque, vorrebbe privarsi di una condizione percepita come un “dono”, piuttosto che come un disturbo. Gli ultimi risultati scientifici stanno orientando la comunità scientifica a riconoscere che forse questa condizione non è tanto rara e circoscritta come si credeva. Alcuni studi suggeriscono che il cervello di tutti gli esseri umani disporrebbe del “kit di base della Sinestesia”: tutti i neonati avrebbero la possibilità di vivere esperienze sinestetiche, capacità che poi perdono con lo sviluppo. Alcune ricerche sperimentali stanno dimostrando che gli Uomini, se adeguatamente stimolati, potrebbero scoprirsi tutti in grado di sperimentare naturalmente esperienze simili alla Sinestesia. Esperienze di tipo Sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze allucinogene come la Mescalina o sostanze stupefacenti come l'LSD, oppure attraverso esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta “Pseudo-sinestesia”, in quanto è indotta o comunque non presente dalla nascita. Esperienze di tipo sinestetico sono state raggiunte recentemente anche attraverso l’applicazione delle nuove tecnologie creative digitali. Le ricerche sulla contaminazione tra i sensi sta portando gli scienziati ad assumere che l’ipotesi che i vantaggi indotti dalle capacità sinestetiche (in grado di sviluppare forme endogene di “realtà aumentata”) starebbero influenzando il cammino evolutivo dell’Uomo, conducendolo verso lo sviluppo di una mente sempre più ricettiva e multisensoriale. Gli scienziati David Brang e Vilayanur Ramachandran affermano in una recente ricerca , infatti, che “la Sinestesia è un fenomeno altamente ereditabile, che è associato a numerosi vantaggi per l'elaborazione cognitiva, sottolineando questa condizione è sopravvissuta alle pressioni evolutive”. Potrà l’uso massivo delle nuove tecnologie digitali facilitare nell’Uomo adulto non solo il mantenimento, ma anche lo sviluppo delle sue innate capacità sinestetiche? Se vogliamo volgere il nostro pensiero ad alcune teorie sui media e le nuove tecnologie forse ciò è possibile. McLuhan afferma: “Tutti i media ci violentano completamente … Alterano l’ambiente, evocano specifici rapporti fra senso e percezione … Quando questi rapporti cambiano, anche gli Uomini si modificano …” | Synesthesia is a neurologic condition in which the stimulation of a sensory or cognitive pathway leads directly towards involuntary experiences which merge in a second sensory/cognitive pathway. People who report such experiences are known as Synesthetes. The scientific study of Synesthesia has developed incredibly, through a real systematic study, from little more than a decade, thanks to the development of technologies for neuroimaging. Through this technique, we are able to view the areas in which cerebral activity is happening, on a digital map; this represents a real revolution in neurosciences. Researchers have in fact discovered that in the brain of a Synesthete, as an answer to a sensorial stimulation, neurons of different areas are activated: following a perception coming from the external world, so, not only the neurons specialized in performing the specific function are activated, which should be unequivocally triggered by the sensorial stimulus, but that single perception also induces the activation of the ones localized in other areas (for example: the auditory); a visual stimulation, for instance, doesn’t only interest the neurons of the visual cortex. In this way, scientists got rapidly aware of the fact that actually in all of the human beings the neurons of the different cerebral regions are not isolated, but communicate in a wider network of connections. The difference in the found Synesthetes, is the presence of a thicker network that the average. Thank to the development of Synesthesia, therefore, neuroscientists have reached the knowledge that a correct comprehension of the brain cannot be based on a reductionist vision. “the whole system is a big network”, explains David Eagleman, researcher of the Baylor College of Medicine. “It is no longer enough to think about the single areas as isolated”. So, synesthesia is a neurologic condition, which provokes the “contamination” of senses. For instance, in the case of Perry Hall (american artist known for the suggestive special effects of his artworks), shapes, colours and sounds of his works are wisely mixed in a “living” and multi-sensorial art: to him, a visual stimulus (as the one provoked by a coastal route during a train journey) immediately triggers also an auditory response. It has been studied that, in the artist colours and shapes produce differents sounds, each music in its brain is highlighted by specific color. According to what has been explained by the psychologist Darya Zabelina of the Northwestern University, “Synesthesia is a gift which seems to be common among artists, with a percentage which is even about the 25%”. In the rest of the population we see it more rarely, but practically, not all of the people are aware to possess it. Until today, the cause of Synesthesia hasn’t been defined with precision; but none of the Synesthetes, however, would rather deprive of a condition seen as a “gift” more than an ailment. The latest scientific results are orienting the scientific community to recognize that, maybe, this condition isn’t as rare as it seems. From the moment that some studies suggest that the brain of all the human beings is equipped with the “basic kit” of Synesthesia, some experimental researches are demonstrating that, if adequately stimulated, we could all be capable of experimenting naturally something similar to Synesthesia. Synesthetic experiences can be induced artificially, through the usage of hallucinogenic substances such as Mescaline, or narcotics such as LSD, experiences of sensorial deprivation, meditation, and in some types of diseases which act on the cerebral cortex. This type of Synesthesia is called pseudo-synesthesia, as it is induced or not present from birth. Synesthetic experiences has been reached recently also through the application of new creative digital technologies. The research on the contamination between senses is bringing the scientists to gain the advantages induced by this form of “endogenous augmented reality”, and are influencing the evolutionary path of Men, leading him towards a development of a much more receptive and multi-sensorial mind, which can be eased by the massive use of new digital technologies. The research over senses contamination is bringing the scientists to assume the hypothesis that the advantages induced by the synesthetic capacities (capable of developing endogenoud forms of “augmented reality”) are influencing the evolutionary path of mankind, leading toward the development of an increasingly receptive and multisensorial mind. The scientists David Brang and Vilayanur Ramachandran, in a recent research, state that “Synesthesia is a highly heritable phenomenon, which is associated to numerous advantages in cognitive elaboration, highlighting that this condition survived to evolutionary pressures”. Will the massive usage of new technologies ease the development and subsistence of innate synesthetic capacities in the adult Man? If we want to move our mind towards some theories about media and new technolgoeis maybe this might be possible. McLuhan states that “All the media totally violate us [...] they alter environment, evoke specific relations between sense and perception [...] when these relations change, also Men change ..." |
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Cognitive Sciences
EMOTIVE TECHNOLOGIES
di Vittorio Dublino
EMOTIVE TECHNOLOGIES
di Vittorio Dublino
Possono i nuovi media, le tecnologie creative digitali essere impiegate per supportare nuove forme di esperienze emozionali? La ricerca scientifica ci apre prospettive e visioni futuristiche sorprendenti. Come suggerisce Brenda K. Wiederhold [1], le ricerche in questo nuovo campo delle Neuroscienze e della Psicologia Cognitiva chiamata “CyberPsichology” dimostrano sperimentalmente che le tecnologie digitali e i nuovi media hanno in effetti un grande potenziale quali strumenti di “Induzione emotiva” aprendo la possibilità “di una diffusione planetaria di tecnologie emotive in grado di migliorare la Qualità della Vita” [3]. La ricerca scientifica ha dimostrato che, nel perseguimento di un buono stato psicofisico (condizione tra l’altro determinante nel rendere un individuo socialmente attivo nello stabilire buone relazioni con gli altri individui) lo stress e le emozioni sono fattori critici che prendono un ruolo determinante nel raggiungimento di una condizione di buona o scarsa Qualità di Vita. Il ruolo delle emozioni e il controllo dello stress, quindi, negli ultimi anni stanno assumendo sempre più importanza nella ricerca scientifica applicata alla comprensione e alla definizione dei meccanismi neurofisiologici, biochimici e psichici in grado di influenzare positivamente o negativamente lo stato di salute generale dell’Individuo. “Una delle teorie dominanti che cerca di spiegare i meccanismi per cui le emozioni positive sono importanti per la sopravvivenza è la Broadenand- Build Theory of Positive Emotions (Fredrickson, 1998; 2001). La flessibilità cognitiva, evidente durante gli stati emozionali positivi, risulta nella creazione di risorse che diventano utili in ogni momento. Anche se uno stato emozionale positivo è solo momentaneo, i benefici durano e hanno un impatto sulle dimensioni di tratto, sui legami sociali e sulle abilità che resistono nel futuro (Fredrickson, 2009).” [3] Un sempre maggiore interesse da parte della scienza che si occupa di questi problemi si sta rivolgendo verso lo studio dell’influenza delle “Emozioni positive” nei processi di regolazione dello stress. In campo medico i risultati di numerose ricerche svolte sembrano confermare come il “buon umore” [4] possa influire sullo stato generale del paziente e favorire l’organismo nella guarigione da una patologia, non solo contribuire a mantenerlo sano. Recenti studi in Neurofisiologia chimica hanno dimostrato, infatti, che alcune parti del Cervello, come il Locus Coeruleus [5], opportunamente stimolate da fattori ambientali esterni “positivi” per la sfera psichica dell’Uomo (come ad esempio fattori agenti che provochino la “risata”) siano in condizione di contrastare gli stati depressivi enfatizzando il rilascio di particolari sostanze chimiche a scapito di altre . Le discipline medico-scientifiche che studiano questi fenomeni sono la PsicoNeuroImmunologia[6] e la NeuroPsicoEndocrinologia che si occupano di definire le interazioni circolari che intercorrono tra la chimica dell’organismo umano e le neuroscienze in funzione degli stati emotivi dell’Uomo. Queste aree di ricerca stanno indagando sulla concreta possibilità che le “Emozioni negative” abbiano effetti immuno-depressivi, mentre, al contrario, le “Emozioni positive” risultino avere effetti benefici sull’intero stato generale di salute psico-fisica degli individui contribuendo a mantenere un sistema immunitario efficiente. Sono state messe a punto diverse tecniche di controllo delle emozioni in grado di regolare lo stress negativo (distress). Ovviamente, nello sviluppo della nostra ricerca di base applicata allo sviluppo del nostro progetto, il nostro interesse si focalizza su quelle tecniche che rientrano nell’area cognitivo-comportamentale. In particolare, raccordandoci a quanto già trattato più sopra, ci soffermiamo sulle cosiddette Tecniche di visualizzazione: che si basano sulla concezione multidimensionale dell’Intelligenza umana che definisce l’esistenza di diverse “Intelligenze specializzate” [7]. L’intelligenza visiva, definita da Ian Robertson [8] è una di quelle abilità cognitive correlata alla capacità di Immaginazione, più o meno sviluppata in ogni Individuo. Le esperienze, quindi, possono essere “immaginate” , raggruppandole in tre categorie: quelle relative alle “Percezioni sensoriali” (indotte da uno o più dei 5 sensi); quelle connesse con le capacità “Propriocettive” e le “Cinestesiche”. L’intelligenza visiva può essere potenziata (in particolare lungo le fasi dello sviluppo) e mantenuta attraverso un allenamento indotto da stimoli adeguati tra cui si evidenziano quelli che afferiscono alle arti visive, la musica e lo sport. I recenti studi che si sono attivati dopo la scoperta dei “Neuroni Specchio” ci stanno offrendo l’opportunità di progettare e sperimentare opportune tecniche tese al perseguimento di questi scopi, è stato dimostrato che tali tecniche di visualizzazione possono aiutare a contrastare esperienze ed emozioni negative (quindi causa di “distress”) fornendo all’individuo il vissuto di esperienze positive. | Scientific research opens surprising perspectives and future visions. As suggested by Brenda K. Wiederhold , the researches in this new field of Neurosciences and Cognitive Psychology called “CyberPsychology” demonstrate, experimentally, that the digital technologies and new media have perhaps a great potential as instruments of “Emotional Induction” , opening the possibility “of a planetary diffusion of emotional technologies capable of improving the Quality of Life” . Scientific research has demonstrated that, in the pursue of a good psychophysical condition (determining factor in making an individual socially active in the creation of good relationships with other individuals) stress and emotions are critical factors, which play a leading role in reaching a good or bad Quality of Life. The role of emotions and stress control, in the latest years, is gaining more and more importance in the scientific research applied to comprehension and definition of neurophysiological, biochemical and psychic mechanisms capable of influencing positively or negatively the state of general health of an individual. More and more interest by the portion of the scientific community which works in this field is being put in the study of the influence of “Positive Emotions” in the processes of stress regulation. As theorized by Prof. Pressman and Cohen , “Positive emotions can play a protective role towards physical and mental health" . One of the dominating theories which tries to explain the mechanisms for which "Positive emotions" are important for survival, is the "Broadenand-Build Theory of Positive Emotions" developed by Prof. Barbara Friedrickson; she assume that "Cognitive flexibility", clear to see during the positive emotional states, results in the creation of resources which become useful every moment. Even if a positive emotional state is only momentaneous, the benefits last long and have an impact also on the dimensions of stretch, on social connections and on the abilities which resist in the future” . In the medical field, the result of many researches seem to confirm how “good mood” can affect on the general state of the patient and support the healing of an organism after a disease, not only contributing in keeping it healthy. Recent studies in "Chemical Neurophysiology" have demonstrated, in fact, that some parts of the Brain, as the Locus Coeruleus , if appropriately stimulated by “positive” external environment factors for the psychic sphere of Men (as for example factors which provoke laughter) are capable of contrasting depressive states, emphasizing the release of particular chemical substances over others. Medical disciplines which study these phenomena are "PsychoNeuroImmunology" and the "NeuroPsychoEndocrinology" which deal with the circular interactions which come between the chemistry of an human organism and neurosciences, in function of the emotional state of Men. These areas of research are investigating for the actual possibility that the “Negative Emotions” have immunosuppressive effects, while, on the contrary, the “Positive emotions” have benefic effects on the whole state of psychophysical health of individuals, contributing to keep and efficient immunity system. Different techniques of emotion control have been developed, capable of regulating negative stress (distress). Obviously, in the development of base research applied to the development of Emotional Technologies , the interest is focused on those techniques which fall in the cognitive-behavioral area. Particularly, they focus on the so-called "Visualization Techniques": the ones based on the multidimensional conception of the Human Intelligence which defines the intelligence which defines the existence of different “Specialized Intelligences” . The visual intelligence, defined by Ian Robertson is one of those cognitive abilities connected to the capacity of Imagination, more or less developed in an individual. Experiences, so, can be “imagined”, and grouped in three main categories: the ones related to “sensory perceptions” (induced by one or more of the 5 senses); the ones connected to the “proprioceptive” and “kinesthetic”. Visual intelligence can be enhanced (in particular during the stages of development) and kept through a training induced by adequate stimuli amongst which we highlight the ones related to visual arts, music and sports. Recent studies, activated after the discovery of “Mirror Neurons” have offered the possibility of planning and experimenting the right techniques aimed to the pursue of the aforesaid aims, it has been demonstrated that those techniques of visualization can help contrasting negative experiences and emotions (which cause, so, “distress”) supplying the individual the experience of positive background. |
[1] Wiederhold B.K. : Direttore Virtual Reality Medical Institute, Belgio
[2] L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la Qualità della vita come uno stato multidimensionale dell’Individuo in cui il Benessere viene raggiunto non solo per l’assenza di malattie, piuttosto attraverso il perseguimento di un complessivo stato soggettivo di buona salute fisica, buono stato psicologico e buone relazioni sociali.
[3] Villani D., Grassi A. & Riva G. (2011), Tecnologie Emotive, Edizioni Universitarie LED.
[4] come riscontrato dagli esiti della ricerca empirica sulla “terapia del sorriso”.
[5] Un nucleo situato nel Tronco encefalico tra il Mesencefalo e ponte di Varolio. E’ stato osservato che questa parte del Cervello si attiva in modo particolare prima di ogni guarigione. Questo centro viene inattivato da stimoli monotoni e viene attivato da stimoli insoliti. È dimostrato che la stimolazione del Locus Caeuleus inneschi nell’organismo reazioni antidepressive. Locus coeruleus rilascia noradrenalina quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. La noradrenalina dal Locus coeruleus ha un effetto eccitatorio sulla maggior parte del cervello, attivando l'eccitazione e l'innesco dei neuroni. Le connessioni nervose di questo nucleo raggiungono il midollo spinale, il tronco cerebrale ,il cervelletto, l'ipotalamo, i nuclei relay del talamo, l'amigdala, la base del telencefalo, e la corteccia cerebrale. Attraverso le connessioni con la corteccia frontale e la corteccia temporale, il talamo e l'ipotalamo il Locus Coeruleus è coinvolto nella regolazione dell'attenzione, ciclo sonno-veglia, nell'apprendimento e nella percezione del dolore, nella genesi dell'ansia e nella regolazione dell'umore. Sono stati osservati altissimi addensamenti di Recettori oppioidi nel locus coeruleus, ed è stato studiato come sostanze psichedeliche ne potenzino l'eccitazione. Le sostanze allucinogene non fanno comunque eccitare spontaneamente i neuroni del locus coeruleus in assenza di stimoli sensoriali, per cui si può supporre che esse interagiscano con un insieme differente di neuroni che stabiliscono un contatto diretto con il locus. Poiché il locus coeruleus è un meccanismo a “imbuto” che integra tutti i messaggi sensoriali provenienti dagli organi di senso in un sistema unico di eccitazione generalizzato, la sua alterata eccitazione farà provare sensazioni che travalicano i confini delle differenti modalità percettive caratterizzando il fenomeno cosiddetto: Sinestesia.
[6] PNI: PsicoNeuroImmunologia. What is PsychoNeuroImmunology? It is the interaction between psychological process, nervous system and immune system, the interaction can occur 2 directions: psychology can affect immune system and immune system can affect psychology too; it is the interaction between body, brain and environment and the interaction between immune molecules, neuroendocrine and neurochemistry. “Research has indicated that an inextricable chemical link exists between our emotions, which includes all stress in our lives, both good and bad, and the regulatory systems of the endocrine and immune systems through the central nervous system. This research emphasises the importance of expressing our emotions both verbally and physically in an appropriate way. When strong emotions generate fear, anger or rage and these are not expressed in a healthy way then the body's natural response is that of the sympathetic nervous system as demonstrated in Cannon's research on homeostasis and the fight or flight syndrome. At this point, inappropriate storing of these stressful emotions produces an excess of epinephrine. This excess of epinephrine causes a chemical breakdown, resulting in internal weakening of the immune system and an increased potential for disease. “Negative emotions can intensify a variety of health threats. Research provide a broad framework relating negative emotions to a range of diseases whose onset and course may be influenced by the immune system; inflammation has been linked to a spectrum of conditions associated with aging, including cardiovascular disease, osteoporosis, arthritis, type 2 diabetes, certain cancers, Alzheimer's disease, frailty and functional decline, and periodontal disease. Production of proinflammatory cytokines that influence these and other conditions can be directly stimulated by negative emotions and stressful experiences. Additionally, negative emotions also contribute to prolonged infection and delayed wound healing, processes that fuel sustained proinflammatory cytokine production. Accordingly, “we argue [Kiecolt-Glaser J.K., McGuire L., Robles T.F., Glaser R. (2002) in “Emotions, morbidity, and mortality: new perspectives from psychoneuroimmunology”] that distress-related immune dysregulation may be one core mechanism behind a large and diverse set of health risks associated with negative emotions. Resources such as close personal relationships that diminish negative emotions enhance health in part through their positive impact on immune and endocrine regulation. It is reviewed [Guidi L., Tricerri A., Frasca D., Vangeli M., Errani A.R., Bartoloni C. (1998) in “Psychoneuroimmunology and aging”.] “the relationships between psychological stress and depression and immunological functions, with particular regard to those aspects pertinent to the aging process. The clinical relevance of these interactions remains to be elucidated, but the high frequency in the aged of autoimmune, infectious, and neoplastic diseases suggests to focus on the psychoneuroimmune interactions in the old age.” PNI, A scientific discipline which sees the human organism as a "whole", a network of connected processes, and not an ensemble of separated parts. Body and soul, an unique ensemble which can be influenced by the individual psychic identity and from the surrounding social, natural and cultural environments, activating biochemical processes which regulate the function of the organism, giving a state of comfort or discomfort. Inter alia, it has the merit of integrating a coherent vision with all of the latest scientific discoveries in the medical field. It is a continously and quickly evolving science, which discorvers more and more therapeutic tools. It is presenting, to the scientific community, incredible discoveries up to the possibility of motivating (for the agnostic) "miraculous healing". And behind these, which can appear as strangeness, we see the birth of more and more effective therapies, which are more and more often "natural". The PNI deals with a wide range view, it aims to analyze those phenomena, integrating the details of wider overview. Not only in the relations among system, cells and elctric and chemical messages, but also in the interactions between and the environment, It studies the healthy organism before it gets the disease, because the aim is to restore health.
[7]
[8]
[2] L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la Qualità della vita come uno stato multidimensionale dell’Individuo in cui il Benessere viene raggiunto non solo per l’assenza di malattie, piuttosto attraverso il perseguimento di un complessivo stato soggettivo di buona salute fisica, buono stato psicologico e buone relazioni sociali.
[3] Villani D., Grassi A. & Riva G. (2011), Tecnologie Emotive, Edizioni Universitarie LED.
[4] come riscontrato dagli esiti della ricerca empirica sulla “terapia del sorriso”.
[5] Un nucleo situato nel Tronco encefalico tra il Mesencefalo e ponte di Varolio. E’ stato osservato che questa parte del Cervello si attiva in modo particolare prima di ogni guarigione. Questo centro viene inattivato da stimoli monotoni e viene attivato da stimoli insoliti. È dimostrato che la stimolazione del Locus Caeuleus inneschi nell’organismo reazioni antidepressive. Locus coeruleus rilascia noradrenalina quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. La noradrenalina dal Locus coeruleus ha un effetto eccitatorio sulla maggior parte del cervello, attivando l'eccitazione e l'innesco dei neuroni. Le connessioni nervose di questo nucleo raggiungono il midollo spinale, il tronco cerebrale ,il cervelletto, l'ipotalamo, i nuclei relay del talamo, l'amigdala, la base del telencefalo, e la corteccia cerebrale. Attraverso le connessioni con la corteccia frontale e la corteccia temporale, il talamo e l'ipotalamo il Locus Coeruleus è coinvolto nella regolazione dell'attenzione, ciclo sonno-veglia, nell'apprendimento e nella percezione del dolore, nella genesi dell'ansia e nella regolazione dell'umore. Sono stati osservati altissimi addensamenti di Recettori oppioidi nel locus coeruleus, ed è stato studiato come sostanze psichedeliche ne potenzino l'eccitazione. Le sostanze allucinogene non fanno comunque eccitare spontaneamente i neuroni del locus coeruleus in assenza di stimoli sensoriali, per cui si può supporre che esse interagiscano con un insieme differente di neuroni che stabiliscono un contatto diretto con il locus. Poiché il locus coeruleus è un meccanismo a “imbuto” che integra tutti i messaggi sensoriali provenienti dagli organi di senso in un sistema unico di eccitazione generalizzato, la sua alterata eccitazione farà provare sensazioni che travalicano i confini delle differenti modalità percettive caratterizzando il fenomeno cosiddetto: Sinestesia.
[6] PNI: PsicoNeuroImmunologia. What is PsychoNeuroImmunology? It is the interaction between psychological process, nervous system and immune system, the interaction can occur 2 directions: psychology can affect immune system and immune system can affect psychology too; it is the interaction between body, brain and environment and the interaction between immune molecules, neuroendocrine and neurochemistry. “Research has indicated that an inextricable chemical link exists between our emotions, which includes all stress in our lives, both good and bad, and the regulatory systems of the endocrine and immune systems through the central nervous system. This research emphasises the importance of expressing our emotions both verbally and physically in an appropriate way. When strong emotions generate fear, anger or rage and these are not expressed in a healthy way then the body's natural response is that of the sympathetic nervous system as demonstrated in Cannon's research on homeostasis and the fight or flight syndrome. At this point, inappropriate storing of these stressful emotions produces an excess of epinephrine. This excess of epinephrine causes a chemical breakdown, resulting in internal weakening of the immune system and an increased potential for disease. “Negative emotions can intensify a variety of health threats. Research provide a broad framework relating negative emotions to a range of diseases whose onset and course may be influenced by the immune system; inflammation has been linked to a spectrum of conditions associated with aging, including cardiovascular disease, osteoporosis, arthritis, type 2 diabetes, certain cancers, Alzheimer's disease, frailty and functional decline, and periodontal disease. Production of proinflammatory cytokines that influence these and other conditions can be directly stimulated by negative emotions and stressful experiences. Additionally, negative emotions also contribute to prolonged infection and delayed wound healing, processes that fuel sustained proinflammatory cytokine production. Accordingly, “we argue [Kiecolt-Glaser J.K., McGuire L., Robles T.F., Glaser R. (2002) in “Emotions, morbidity, and mortality: new perspectives from psychoneuroimmunology”] that distress-related immune dysregulation may be one core mechanism behind a large and diverse set of health risks associated with negative emotions. Resources such as close personal relationships that diminish negative emotions enhance health in part through their positive impact on immune and endocrine regulation. It is reviewed [Guidi L., Tricerri A., Frasca D., Vangeli M., Errani A.R., Bartoloni C. (1998) in “Psychoneuroimmunology and aging”.] “the relationships between psychological stress and depression and immunological functions, with particular regard to those aspects pertinent to the aging process. The clinical relevance of these interactions remains to be elucidated, but the high frequency in the aged of autoimmune, infectious, and neoplastic diseases suggests to focus on the psychoneuroimmune interactions in the old age.” PNI, A scientific discipline which sees the human organism as a "whole", a network of connected processes, and not an ensemble of separated parts. Body and soul, an unique ensemble which can be influenced by the individual psychic identity and from the surrounding social, natural and cultural environments, activating biochemical processes which regulate the function of the organism, giving a state of comfort or discomfort. Inter alia, it has the merit of integrating a coherent vision with all of the latest scientific discoveries in the medical field. It is a continously and quickly evolving science, which discorvers more and more therapeutic tools. It is presenting, to the scientific community, incredible discoveries up to the possibility of motivating (for the agnostic) "miraculous healing". And behind these, which can appear as strangeness, we see the birth of more and more effective therapies, which are more and more often "natural". The PNI deals with a wide range view, it aims to analyze those phenomena, integrating the details of wider overview. Not only in the relations among system, cells and elctric and chemical messages, but also in the interactions between and the environment, It studies the healthy organism before it gets the disease, because the aim is to restore health.
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Reference:
- Fredrickson B. L. (2001), The Role of Positive Emotion in Positive Psycology , The Broaden-and-Build-Theory of Positive Emotions; University of Michigan
- Fredrickson B. L. (2002), How Does Religion Benefit Health and Well-Being? Are Positive Emotions Active Ingredients?; Department of Psychology, University of Michigan
- Fredrickson B. L. (2009), Positivity; Crown Publisher New York
- Pressman, S. D. & Cohen, S. (2005), Does positive affect influence health?; Psychological Bulletin
- Pressman, S. D. & Cohen, S. (2006), Positive affect and health?; Current Direction in Psychological Science
- Villani D. , Grassi A., Riva G. (2011) , Tecnologie Emotive; Edizioni LED
- Wiederhold B. K. (2011), Preface Toward Emotional Technologies; edizioni LED
Neuroscienze Sociali
a cura di V.Dublino
La Neuroscienza Sociale è il campo accademico a carattere interdisciplinare dedicato a comprendere come i sistemi biologici implementano i processi sociali e del comportamento, e come queste strutture sociali e i processi sociali impattano il Cervello e la biologia dell’Organismo.
Un presupposto fondamentale alla base delle Neuroscienze Sociali è che tutto il comportamento sociale è implementato biologicamente.
Con il termine “Biologia della Socialità” ci si vuole riferire, dunque, a quelle teorie e a tutto ciò che emerge da quel nuovo campo di studi scientifici interdisciplinari che va sotto il nome di “Neuroscienze sociali”.
Poiché è un nuovissimo campo di studi, i campi d’interesse e i limiti delle Neuroscienze sociali non sono state ancora ben definiti. In linea di massima, la Società per le Neuroscienze Sociali (fondata nel 2010), definisce le "Neuroscienze Sociali come lo studio interdisciplinare dei meccanismi neurali, ormonali, cellulari e genetici alla base delle strutture emergenti che definiscono le Specie Sociali."
Questa nuova disciplina viene istituita nel campo delle Neuroscienze (finalmente diventata una disciplina matura), poiché sta diventando sempre più evidente che il sistema nervoso non può essere considerato come un'entità isolata, e i suoi meccanismi di funzionamento non possono essere studiati e compresi senza tenere in considerazione i contesti sociali in cui gli esseri umani e molte specie di animali vivono .
Oramai viene sempre più riconosciuto il notevole impatto del cervello e la funzione del corpo di strutture sociali che vanno dalle coppie, le famiglie, i quartieri e gruppi di città , le civiltà e le culture, le alleanze internazionali .
Questi fattori operano sull’Individuo attraverso un continua sollecitazione dei fattori neurali e neuroendocrini, sul metabolismo e su sistema immunitario che agiscono sul Cervello e sull’Organismo, in cui il Cervello è l' organo regolatore centrale dell’Organismo, ma anche un Soggetto influenzabile da questi fattori .
Per questo motivo, le Neuroscienze Sociali, indagano il sistema nervoso e le sue manifestazioni ai molti livelli che interagiscono con e su di esso: dalle molecole della Chimica organica alle Società. Le neuroscienze sociali riuniscono ed incrociano gli esiti di molteplici discipline e metodologie per definire le strutture emergenti che definiscono le specie sociali , in generale , e che sono alla base della salute umana e del comportamento , in particolare . Si sta assumendo che tali Studi sono essenziali per svelare questa complessità e potrebbero fornirci in futuro strumenti per contemplare il benessere futuro della vita sulla terra .
La missione della Società per le Neuroscienze Sociali, è quello di servire come luogo interdisciplinare ed internazionale di raccolta e di distribuzione delle Informazioni scientifiche in questo campo, avanzare e promuovere la formazione scientifica, la ricerca e le applicazioni sul campo per il bene del Genere Umano.
Un presupposto fondamentale alla base delle Neuroscienze Sociali è che tutto il comportamento sociale è implementato biologicamente.
Con il termine “Biologia della Socialità” ci si vuole riferire, dunque, a quelle teorie e a tutto ciò che emerge da quel nuovo campo di studi scientifici interdisciplinari che va sotto il nome di “Neuroscienze sociali”.
Poiché è un nuovissimo campo di studi, i campi d’interesse e i limiti delle Neuroscienze sociali non sono state ancora ben definiti. In linea di massima, la Società per le Neuroscienze Sociali (fondata nel 2010), definisce le "Neuroscienze Sociali come lo studio interdisciplinare dei meccanismi neurali, ormonali, cellulari e genetici alla base delle strutture emergenti che definiscono le Specie Sociali."
Questa nuova disciplina viene istituita nel campo delle Neuroscienze (finalmente diventata una disciplina matura), poiché sta diventando sempre più evidente che il sistema nervoso non può essere considerato come un'entità isolata, e i suoi meccanismi di funzionamento non possono essere studiati e compresi senza tenere in considerazione i contesti sociali in cui gli esseri umani e molte specie di animali vivono .
Oramai viene sempre più riconosciuto il notevole impatto del cervello e la funzione del corpo di strutture sociali che vanno dalle coppie, le famiglie, i quartieri e gruppi di città , le civiltà e le culture, le alleanze internazionali .
Questi fattori operano sull’Individuo attraverso un continua sollecitazione dei fattori neurali e neuroendocrini, sul metabolismo e su sistema immunitario che agiscono sul Cervello e sull’Organismo, in cui il Cervello è l' organo regolatore centrale dell’Organismo, ma anche un Soggetto influenzabile da questi fattori .
Per questo motivo, le Neuroscienze Sociali, indagano il sistema nervoso e le sue manifestazioni ai molti livelli che interagiscono con e su di esso: dalle molecole della Chimica organica alle Società. Le neuroscienze sociali riuniscono ed incrociano gli esiti di molteplici discipline e metodologie per definire le strutture emergenti che definiscono le specie sociali , in generale , e che sono alla base della salute umana e del comportamento , in particolare . Si sta assumendo che tali Studi sono essenziali per svelare questa complessità e potrebbero fornirci in futuro strumenti per contemplare il benessere futuro della vita sulla terra .
La missione della Società per le Neuroscienze Sociali, è quello di servire come luogo interdisciplinare ed internazionale di raccolta e di distribuzione delle Informazioni scientifiche in questo campo, avanzare e promuovere la formazione scientifica, la ricerca e le applicazioni sul campo per il bene del Genere Umano.
Source of information
http://s4sn.org/
Resources
- Vuoi sapere di più sulle Scienze Sociali nell'interesse Pubblico?
https://ccsn.sites.uchicago.edu/page/ccsn-resources
PERFORMANCE MUSICALE E RISONANZA EMPATICA di Alessandra Seggi L’intento di questo articolo è riflettere intorno al problema della performance musicale e di come questa attivi tanto nell’ascoltatore quanto nell’interprete una risonanza che coinvolge entrambi in una risonanza di tipo empatico. Questo processo d’interrelazione è stato ampiamente studiato ma in questa sede s’intende osservare la relazione interprete-ascoltatori seguendo i contributi offerti dalle recenti ricerche neuroscientifiche. L’espressione musicale ha da sempre fatto parte della comunicazione umana attraversando nei secoli modalità sonore socialmente e culturalmente condivise sia nelle forme che nelle specificità linguistiche. Fin qui niente di nuovo ma ciò che oggi le nuove ricerche scientifiche chiariscono è che non solo il prodotto musicale parla dell’epoca che lo ha prodotto ma rappresenta un punto importante di convergenza nella relazione umana intersoggettiva e sociale. Ciò che appare chiaro è la capacità della musica di evocare risonanze affettive e sensomotorie simili sia in chi ascolta che in chi suona. In quest’ottica fare così come ascoltare musica rappresentano due tipologie d’esperienza molto più simili fra loro di quanto si sarebbe potuto pensare. Perché si attiva questa risonanza fra interprete ed ascoltatore? La nostra condizione umana ci predispone alla necessità di stabilire relazioni con l’altro sia per confermare il nostro stesso esistere quanto per attivare una costruzione di sé che non potrebbe essere di natura autosufficiente. Così come il nostro essere sociale ci spinge a stabilire relazioni interpersonali positive promuovendo comportamenti prosociali in grado di rispondere a bisogni di tipo relazionali. Nel corso della propria esistenza l’uomo è insieme costruttore di un’identità collettiva quanto individuale all’interno della quale ritrovare una condivisione in grado di distinguerci in quanto esseri unici ma allo stesso tempo assimilarci agli altri come esseri appartenenti ad una comunità. La storia dell’evoluzione umana mostra come l’imitazione è il prerequisito di base per lo sviluppo di abilità sociali come comprendere l’emozioni esperite da altri proprio in virtù della capacità di rispecchiamento reciproco. Oggi sappiamo che il merito di queste straordinarie capacità risiede nel sistema dei neuroni specchio. Questi di fatto ci aiutano a ricostruire nel nostro cervello le intenzioni dell’altro permettendoci una comprensione profonda degli stati d’animo altrui. Questa modalità così connaturata con il nostro essere che si pone in continuo ascolto di sé e proiezione fuori da sé facilita notevolmente il comportamento sociale dell’essere umano. Ciò che si crea è un’interdipendenza del proprio sé con quello dell’altro in un rispecchiamento reciproco che costituisce il presupposto indispensabile alla costituzione di un processo d’ empatia. Ma cosa ha a che fare tutto questo con l’espressione musicale? Immaginiamoci una scena. Sono ad un concerto. Le luci si abbassano, in sala scende un silenzio carico di attesa, entra il direttore d’orchestra , applausi e poi di nuovo un silenzio ancora più denso; il direttore alza le braccia, respira ed in quell’attimo di grande concentrazione anche il mio respiro è sospeso fino all’attacco del suono. Perché tutto questo accade all’ascoltatore? E perché non accade solo agli interpreti? Ogni opera musicale si esprime sempre attraverso il corpo in azione è la dinamica del gesto che produce il suono coerente alla valenza espressiva manifesta. Proprio questa gestualità rappresenta il fulcro intorno al quale si costruisce una sintonizzazione capace di attivare anche in chi ascolta una condivisione simulata dell’esperienza stessa. Dagli studi compiuti in questi ultimi anni emerge chiaramente che la gestualità ed il linguaggio fanno parte di un unico sistema coerente. Del resto la gestualità precede lo sviluppo del linguaggio ed acquista una specifica valenza proprio nell’atto imitativo che rappresenta una prima forma di condivisione con l’altro. Gli studi sul sistema dei neuroni specchio hanno chiarito l’esistenza di un meccanismo neurale che mappa direttamente l’espressione delle azioni altrui sulla rappresentazione motoria delle stesse azioni presenti nel cervello dell’osservatore. I dati che emergono da questi studi mettono in evidenza la nostra capacità di entrare in risonanza con le azioni compiute dagli altri proprio perché i neuroni specchio si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando la vediamo compiere da altri. Questo meccanismo di rispecchiamento, che coinvolge anche il nostro sistema motorio, dimostra che noi non solo vediamo con la parte visiva del cervello ma anche conil sistema motorio. “I neuroni specchio mappano in modo costitutivo una relazione tra agente e un oggetto: la semplice osservazione di un oggetto che non sia obiettivo di alcuna azione non evoca in essi alcuna risposta.” 1 “I neuroni specchio (…) sono alla base, prima ancora che l’imitazione, del riconoscimento e della comprensione del significato degli “eventi motori” ossia degli atti degli altri”. 2 Tali meccanismi di rispecchiamento sono presenti nell’atto musicale in termini di simulazione come al momento dell’apprendimento di tecniche specifiche tipo ditegggiature o articolazioni ma anche durante l’esecuzione di un brano chi ascolta è realmente parte attiva del processo sonoro che si compie nel momento. La base comune è rappresentata dalla capacità di sintonizzarsi empaticamente all’intenzionalità espressiva dell’atto musicale. Un’ espressività mostrata sia nella pratica interpretativa quanto nella gestualità dell’interprete. E’ così che sentirò vivere in me un coinvolgimento fisico quasi come se fossi in prima persona a suonare in quel momento, come se guardare ed ascoltare mi permettesse di esperire fisicamente sensazioni fisiche coerenti a ciò che si mostra. Alla luce di queste premesse è lecito ipotizzare che esista un linguaggio espressivo all’interno del quale esecutore ed ascoltatore generalmente concordano. L’idea sonora espressa dell’interprete prende forma non solo sul piano uditivo ma anche su quello gestuale in una coerenza capace di rinforzare l’idea espressiva nel suo presentarsi. Attraverso l’atto esecutivo il musicista rende leggibili le relazioni che si stabiliscono all’interno di un’ idea musicale. Tali atti sono anche la causa diretta sia della qualità espressiva sia della qualità sonora del risultato acustico nel suo insieme. L’esecuzione è così il risultato di un’interazione tra un piano di pensiero, ciò che si vuole ottenere, e ed un sistema flessibile di programmazione gestuale, atta ad ottenerlo. Alla luce di queste osservazioni possiamo considerare l’oggetto artistico come un atto di natura sociale capace di evocare risonanze di natura senso-motoria ed affettiva in colui che ascolta al pari di colui che realmente suona. La natura intersoggettiva della performance musicale si rivela nella capacità di rappresentazione mimetica di chi ascolta e quindi partecipa, anche involontariamente all’atto musicale nel suo complesso. “L’espressività è un tratto fondamentale dell’immediatezza mediata e corrisponde, tanto quanto la strumentalità o l’obiettività del sapere, alla tensione da compensare continuamente e all’intreccio tra corpo ed essere e corpo e avere. L’espressività è un modo originario per venire a capo del fatto di abitare in un corpo e contemporaneamente di avere un corpo.” 3 Ma allora da dove nasce questa consonanza tra interprete ed ascoltatore? C’è una modalità di risonanza comune tra gli individui nella fruizione artistica? Gli studi di neuroestetica si occupano proprio di indagare in questa direzione individuando possibili standard di percezione universale in grado di svelare la natura dei piaceri estetici che rileviamo davanti ad un’opera d’arte analizzando le conoscenze psicofisiche e neurocognitive proprie della parte visiva del cervello. Oggi questa ricerca è ampliata da studiosi quali V. Gallese e D. Freedberg che propongono di concentrare l’attenzione sui fenomeni che si producono a livello corporeo durante la contemplazione di opere visive. In particolare sull’osservazione dei meccanismi neuronali che assecondano il potere empatico delle immagini. Queste ricerche mostrano come la simulazione incarnata ed i sentimenti empatici generati dalle immagini svolgano un compito molto preciso durante la contepmlazione di opere d’arte. L’idea è che ci sia una sorta d’immedesimazione da parte dell’osservatore nella gestualità propria della produzione di un’opera d’arte, una specie d’imitazione fisica ed interiore della gestualità espressa visivamente. Queste ricerche hanno dimostrato che tanto la simulazione incarnata quanto il sistema senso-motorio risultano coinvolti nel riconoscimento delle emozioni e sensazioni espresse dagli altri proprio perché permettono la ricostruzione di cosa proveremmo in una particolare emozione mediante la simulazione dello stesso stato corporeo. Se questo accade nell’esperienza visiva si potrebbe immaginare uno stesso tipo di rispecchiamento anche nella pratica sonora tra interprete ed ascoltatore. Una simulazione dell’ascoltatore come se lui stesso prendesse parte attiva, fin dai neuroni, nella performance musicale. In parte questo accade già nel momento in cui il pubblico re-interpreta ad ogni ascolto l’opera in oggetto rinnovandone e attualizzandone continuamente il senso ma in questo caso non si tratterebbe di un’operazione squisitamente intellettuale-emozionale ma attraverso la simulazione incarnata si assisterebbe a ben altra tipologia di rispecchiamento. Se queste ricerche troveranno riscontro anche nell’ambito musicale si apriranno nuove prospettive di studio sulla natura del rispecchiamento fra interprete e pubblico e forse potremo guardare, con gli occhi della scienza, alla performance musicale da una prospettiva naturale ed universalmente condivisa tra individui magari non solo della stessa specie. | MUSICAL PERFORMANCE AND EMPATHIC RESONANCE by Alessandra Seggi The aim of this article is to think about the problem of the musical performance and how this can active in such a profound way, either in the listener and in the “actor”, which involves both in an empathic resonance. This interrelation process has been deeply studied but here we want to observe the relation between performer and listener following the contribution offered the recent neuro-scientific research. The musical expression has always been part of the human communication during history, crossing sound modes which have been socially and culturally shared both in their shapes and language specificity. Nothing new up to this point, but what is cleared by the modern scientific research is not only that the music product speaks about the age during which it is produced, but it also represents an important convergence point in the social and cross-subject human relation. What's clear to see is the capability of music to evoke affective and sensorimotor resonances similar to the ones evoked by the ones who play the music. In this view, making and listening to music represent two types of experience which are mutually similar, even more than what could be expected. Why does this resonance amongst player and listener gets activated? Our human condition makes us feel the need to establish relation between each others both to confirm our existence and to activate a self construction which couldn't be naturally self-contained. The same, our social being encourages us to establish positive interpersonal relations promoting pro-social capable of a positive feedback to relational needs. During its own existence, man is the building domain of a collective and meanwhile individual identity inside of which we can find a sharing, capable of underlining our being unique but at the same time assimilating us to other beings belonging to other communities. The history of human revolution shows how imitation is the basic requirement for the development of social abilities such as comprehending the emotions transmitted by others, exactly for this innate mirroring capability. Today we know that all of this extraordinary capacities lays in the system of mirror neurons. These actually help us rebuild in our brain the intentions of others, allowing us a deep comprehension of other people's moods. This mode, tightly connected with our being which is continuously listening and project itself, eases the social behavior of the human being. The result is an interdependence of one's own ego with others', in a mutual mirroring which builds the essential assumption to the built of an empathy process. But what’s the connection between all of this and the musical expression? Let's try to imagine. I'm in a concert. Light go down, the room falls in a waiting silence, the director of the orchestra comes in, applause and then again an even deeper silence; the director raises his arms, breathes and in that moment of great concentration even my own breath is broken until the sound starts. Why all of this happens to the listener and not only to the musicians? Each musical work is always expressed through the acting body, it is the dynamics of the movement which produces the sound, which is coherent to the shown expressive valence. From the studies made on the object in the last years, it clearly emerged that the gestures and the language are part of an unique coherent system. Inter alia the gesture precedes the development of language and acquires a specific valence especially in the imitation act which represents a first form of sharing with others. The study of the mirror neurons system have cleared the existence of a neural mechanisms which directly maps the expression of others' actions over the motor representation of the same actions which are found in the brain of the observer. The data which emerge from these studies show that our capacity of getting in resonance with the actions made by others exactly because the mirror neurons are activated both when we act and when we SEE action. This mirroring mechanism, which also involves our motor system, demonstrates that we not only see with the visual part of the brain, but also with the motor part. "Mirror neurons constructively map the relations between an agent and an object: the simple observation of an object which is not the subject of an action does not evoke any response". "Mirror neurons (...) are the fundament, even before imitation, of the recognition and comprehension of the meaning of 'motor events', which are the actions pf others". The mirroring mechanisms are present in the musical act in terms of simulation as in the moment of the learning of specific techniques such as articulation, but also in the execution of a track, and who listens is really an active part of the sound process which is happening in the specific moment. The common ground is represented by the capacity of empathically tuning to the expressive intentionality of the musical action. An expressivity which is shown both in the interpreting practice and in the gesture of the player. It is in this way that I'll feel a physical involvement as if I were playing the instrument myself, as if looking an listening could allow me to try physical sensations which are coherent with what's shown. It is possible at this stage to hypothesize the existence of an expressive language in which executer and listener generally accord. The sound idea expressed by the executer gets shaped not only on an auditory basis, but also on a gesture one in a coherence which is capable of reinforcing the expressive idea in its unveiling. Through the execution act, the musician makes the relations which happen in a musical idea visible. These acts are the direct cause of either of the expressive quality and of the sound quality of the acoustic result in its ensemble. The execution is the result of an interaction between thought and a flexible system of gesture planning. After these observations, we can consider the artistic object as a social act capale of evoking sense-motor resonances in the people whom listen and in the same way in who produces. The inter-subjective nature of music performance is revealed in the camouflage representation of who listens and, so, participates to the musical act itself. "Expressivity is a fundamental characteristic of the mediated out-rightness and corresponds to the tension to continuously offset and to the interlacement between body-and-being and body-and-wanting. The expressivity is an original way to solve the question of living in a body and having a body". So: where does the consonance between player and listener start from? Is there a common resonance amongst the individuals involved in artistic fruition? The neuro-esthetical studies deal with the detection of possible standards of universal perception, capable of unveiling the nature of the aesthetic pleasure which we feel in front of an artwork analyzing the psychophysical and neurocognitive knowledge own of the visual part of the brain. Today, this research is being expanded by researchers such as V. Gallese and D. Freedberg which propose to focus on the phenomena which are produced on the body during the contemplation of visual artworks. Especially on the observation of neuron mechanisms which accommodate the empathic power of images. These researches show how empathic simulation and feelings generated by the images perform a very specific task during the contemplation of artworks. The idea is there might be a sort of physical involvement from the visually expressed gesture. These researches have demonstrated that both simulation and sense-motor system are involved in the recognition of emotions and feelings expressed by others precisely because they allow the reconstruction of what we would feel in a specific emotion through the stimulation of the body status If this happens in the visual experience, we could imagine a similar mirroring also in the sound practice between interpreter and listener. A simulation of a listener as if he were taking an active part, from the neurons, in a music performance. The already happens partly in the moment in which the audience re-elaborates, during each fruition, the work renewing and actualizing continuously its sense, but in this case it will not only be and exclusively intellectual-emotional operation, but through the incarnated simulation we'll see a brand new type of mirroring. If these researches will be replied also in the music field, we'll attend the opening of new study perspectives about the mirroring between audience and interpreter and maybe we'll be able to see, through the science eyes, the music performance by a natural perspective which will be universally shared between the individuals, whom might not belong to the same species. |
References:
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- Schon D. , Akiva-Kabiri L. , Vecchi T. , 2007: Psicologia della musica, Roma, Carocci.
Notes:
1 Gallese, 2008, p. 21
2 Rizzolati, Sinigaglia,2006, p. 94-96
3 Plessner,2007, p. 78.
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Francesco C. Betti |
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